Libia nel caos. Gheddafi e l’attuale rischio di una Guerra Civile. Intervista alla Dott.ssa Valentina Spata

Donna siciliana, esperta in storia e politiche dell’Africa e Analista politica del Medioriente. Operatrice Legale a servizio dei Richiedenti Asilo Politico. La Dott.ssa Valentina Spata, che sta per conseguire anche il Diploma di Affari Esteri, specializzata in Diritto della Comunità europea, Governance Europea, Diritto dell’Immigrazione, ci lascia una interessante intervista sulla situazione della Libia che potrebbe sfociare in un’altra Guerra Civile. 

Dott.ssa, lei dice spesso che per capire le cause e le conseguenze del caos in Libia bisogna conoscere la storia di questo Paese arabo ed in particolare il lungo periodo in cui Gheddafi è stato al potere. Ce ne parli. 

Certo, per comprendere la crisi libica bisogna conoscere il periodo storico che riguarda appunto il potere di Gheddafi.
La crisi libica di fatto è stata innescata dalla caduta di Mu’ammar Gheddafi. La fine del regime e la morte del dittatore hanno aperto un vaso di Pandora alla cui base si situa la debole identità nazionale libica. Possiamo condannare Gheddafi per tanti motivi ma quest’uomo aveva la capacità di tenere a bada le numerose milizie e tribù.
Gheddafi ha governato per quarantadue anni basando tutto su legami assolutamente informali e non formali. In Libia non esistevano istituzioni forti, proprio perché non si volevano creare poli di potere contrapposti al regime. La fine di esso ha decretato il crollo del sistema. Adesso non ci sono istituzioni, non c’è polizia, non ci sono punti di riferimento. Sono quindi emersi i localismi, i tribalismi e le divisioni regionali. Il risultato è stata una situazione di totale anarchia, le milizie si sono armate e non hanno voluto deporre le armi, si sono creati vari gruppi in lotta gli uni contro gli altri. Oggi i disordini si trasformano in una crisi di portata enorme che può sfociare in una lunga guerra civile.

Chi era Mu’ammar Gheddafi? La sua Rivoluzione cosa rappresentò per la Libia, per l’Africa e l’intero mondo occidentale? 

Gheddafi, che aveva appena 27 anni, era il capitano dell’esercito che con un gruppo di militari organizzò un colpo di Stato per rovesciare il potere del re Idris I, il 26 agosto del 1969. Cinque giorni dopo, il 1 settembre,  proclamò la nascita della Repubblica libica, guidata da un Consiglio del Comando della Rivoluzione composto da 12 militari. In questo giorno Mu’ammar Gheddafi instaurò la Jamaria libica, un governo sui generis, che letteralmente significa Stato governato dalle masse, nel quale l’islam svolgeva un ruolo di primo piano. Gheddafi, che nel frattempo era stato nominato colonnello, si mette a capo del Consiglio instaurando una dittatura feroce.

Il primo obbiettivo di Gheddafi, dopo il colpo di Stato del 1969, era quello di assicurarsi il sostegno delle kabile, nome con il quale si indicano in Libia le tribù di origine beduina. Essendo lui stesso beduino, riuscì a muoversi in questo contesto con particolare destrezza: conferì cariche allo scopo di assicurarsi il sostegno dei capi kabila e delle loro tribù. Provenendo da una kabila del Fezzan centrale, venne facile a Gheddafi inserirsi anche nel contesto di storica rivalità esistente tra le popolazioni della Cirenaica e quelle della Tripolitania, religiose e ribelli le prime, più laiche e flessibili le seconde. Non è un caso, quindi, che le kabile della Cirenaica diventarono subito oggetto di discriminazione e persecuzione perché legate alla confraternita della Senussyya (mistica musulmana) e alla precedente monarchia e quindi potenzialmente ostili al regime. La Cirenaica, definita dal Colonnello “una regione della Libia un po’ viziata”, veniva infatti esclusa da investimenti o benefici finanziari, malgrado si trovi proprio su questo territorio la maggior parte dei giacimenti di petrolio, oltre ad essere teatro di dure repressioni da parte dello stesso Gheddafi.

Nonostante le numerose Kabile libiche, la spiccata abilità relazionale di Gheddafi fa sì che ognuna di queste entità ottenga rappresentanza a livello centrale. Come già spiegato, le altre entità politico-tribali che non sostengono il dittatore sono nei fatti escluse da ogni concessione di potere e denaro.

Ecco, per ottenere stabilità in Libia bisogna partire da qui. Dalla capacità di saper gestire le milizie e le tribù facendole restare al loro posto senza denigrarle. Gheddafi ci riuscì. Coloro che vennero dopo di lui, compreso lo sconosciuto Sarraj imposto dalla Comunità Internazionale, non ne sono mai stati capaci, indi per cui ci troviamo una situazione di destabilità che ha provocato numerose crisi libiche.

Un altro strumento ampiamente utilizzato dal colonnello per controllare il Paese fu la repressione. Gheddafi non concepiva alcuna forma di opposizione, anche se pacifica, e per rendere efficace questo sistema di repressione utilizzava i Servizi di sicurezza, mentre all’Intelligence militare delegava il controllo delle Forze Armate. Gheddafi decide comunque di limitare l’autonomia e il potere di queste Forze, conscio del fatto che lo stesso colpo di Stato che lo ha visto come protagonista è stato reso possibile proprio dalla capacità operativa e dall’ampio margine di azione di queste ultime.

Questa fu la Rivoluzione del colonnello, diversa da quella che aveva scritto nel suo libro Verde. Di certo la repressione non è condivisibile ma a questa si poteva sicuramente anteporre il dialogo.

Ci parli del Libro Verde di Gheddafi. Per quale motivo lei lo definisce “un’opera eterna, sempre attuale”? 

Vi sono alcune opere destinate ad essere imperiture e, forse proprio in virtù della loro eterna attualità, capaci di inquadrare limpidamente complesse dinamiche senza concedersi a velleità. È il caso del Libro Verde di Mu’ammar El Gheddafi, pubblicato nel 1975. Gheddafi, al potere da sei anni, sul modello del Libro Rosso di Mao scrive il Libro Verde, ovvero “la Terza Teoria Universale”, con l’intento di offrire una “terza via”, che rigetti la dicotomia capitalismo-comunismo, e che si sublimi nella teoria del socialismo arabo, sospinto da un solido retroterra panarabista. La Repubblica da lui pensata non sarà né ispirata al capitalismo, né al socialismo. Sarà dunque una via islamica per lui necessaria per l’edificazione della società che vede la redistribuzione della ricchezza alla ricerca dell’eguaglianza sociale. Con la Rivoluzione, che porta alla nascita della Jamaria, Gheddafi abroga la Costituzione che fino ad oggi non esiste in Libia: “il corano è la nostra Costituzione” scriverà Gheddafi nel suo libro. L’islam rappresenta la religione dello Stato, nonché il modello cui ispirarsi per l’edificazione della società.

Questo tipo di rivoluzione basta sul potere delle masse e sull’eguaglianza sociale, come ben sappiamo, non è mai avvenuta ma i principi sulle quali si ispirava sono stati adottati in quella rivoluzione che ha islamizzato e arabizzato il popolo libico in tutte le sue forme e che ha segnato, per lungo tempo, le battaglie tra Gheddafi e la Comunità Internazionale.

I tre punti fondamentali su cui Gheddafi ha condotto la sua rivoluzione sono scritti nel libro verde.

La prima parte del libro è una riflessione politica imperniata su un’aspra critica al moderno Occidente democratico e ai suoi strumenti, che usurpano e monopolizzano il potere. Il concetto di democrazia viene concepito come sintomo di sfruttamento capitalista ed è sostituito dal concetto di rappresentanza diretta. L’unico mezzo dunque per mettere in atto la democrazia diretta sono i congressi popolari e i comitati popolari, proprio perché “la democrazia è il controllo del popolo su sé stesso”. La Shura sarà il Consiglio Consultivo che rappresenta la forma di espressione diretta pensata da Gheddafi.

In termini giuridici, oltre al ruolo centrale dell’islam in senso teorico, si assiste ad una reislamizzazione del sistema giuridico attraverso il reinserimento delle sanzioni coraniche in materia penale a partire dagli anni ’70 (lapidazione in caso di adulterio, amputazione di un arto in caso di furto, fustigazione in caso di utilizzo di bevande alcoliche). Queste sanzioni, a dire il vero, non sono mai state applicate fino ad oggi. Pertanto il sistema che intendeva Gheddafi mette al centro l’Islam ma anche l’arabizzazione. Il colonnello è un forte sostenitore dell’arabicità del popolo libico, infatti ha bandito l’alfabeto latino e ristrutturato il calendario per distinguersi e sottolineare un nazionalismo che si innesca in una componente islamica molto forte tinta da aspetti socialisteggianti.

La seconda parte analizza l’aspetto economico. C’è una profonda analisi sul salariato, considerato una schiavitù in tutte le sue forme. La rivoluzione, infatti, si basa sul principio secondo il quale si è soci e no salariati. La soluzione prospettata è la totale abolizione del salario e il ritorno alle norme naturali, presupposto del socialismo naturale, fondato sul principio per cui ad ogni elemento che ha partecipato alla produzione spetta un’equa distribuzione del prodotto: il concetto di proprietà, ad esempio, prevede che l’abitazione è di chi la abita.

La terza parte si incentra, infine, sulla “base sociale” della Terza Teoria Universale. Il motore della storia umana è il legame associativo che si lega con il legame nazionale: alla base di ogni dinamica storica c’è la coscienza nazionale, base della sopravvivenza e della coesione sociale. L’ultimo segmento vira sul significato della famiglia: “La famiglia, riparo naturale dell’individuo, è più importante dello Stato. Il Colonnello si concentra sulla figura della donna, che il mondo moderno sta trasformando, pretendendo un ruolo indecorosamente anti-femminile.

Il colonnello Gheddafi è stato il nemico numero uno dell’Occidente. Per molti anni ha anche sostenuto i terroristi. Ma è stato anche un grande alleato dell’Italia. Quali contraddizioni, se ce ne sono, e come i rapporti con il colonnello hanno influenzato la politica internazionale?

L’irrigidimento repressivo sul piano interno si accompagna alla radicalizzazione delle scelte politiche internazionali, principalmente in funzione anti-occidentale, elementi che portano alla rottura dei rapporti diplomatici tra Libia ed Occidente. Queste tensioni culminano, nel 1986, nel bombardamento della città di Tripoli ad opera degli Stati Uniti (cui lo stesso Gheddafi sfugge miracolosamente) e nell’embargo economico imposto dall’ONU nel 1988. I rapporti diplomatici con i paesi occidentali vengono ripristinati all’inizio del 2000, compresi quelli con l’Italia.

Nello specifico, per comprendere bene la natura di questi rapporti, ricordiamo che in quel periodo, Gheddafi arrivò a sostenere gruppi terroristici come l’IRA irlandese (Irish Republican Army), comunemente conosciuta come Esercito Repubblicano Irlandese ed il Settembre Nero (organizzazione terroristica nota per il massacro di Monaco, ovvero del rapimento e dell’uccisione di 11 atleti israeliani e dell’omicidio di un poliziotto tedesco al villaggio olimpico di Monaco di Baviera) e fu accusato di aver organizzato degli attentati in Sicilia, Scozia e Francia.

Il suo regime era divenuto il nemico numero uno degli Stati Uniti d’America subendo anche l’isolamento dalla NATO. Il 15 aprile del 1986, per volere del Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, un feroce bombardamento chiamato come Operazione El Dorado, colpì il compound di Gheddafi che fu raso al suolo. Il bombardamento lasciò indenne il colonnello che annuncia, però, la morte della figlia adottiva Hanna che fu avvistata, poco tempo dopo, con lo stesso Gheddafi. Il colonnello era stato avvertito dell’attacco alla sua persona dall’allora Presidente del Consiglio Bettino Craxi, indi per cui non si è fatto trovare impreparato. Successivamente la sua risposta fu quella del lancio di due missili SS-1 Scud a Lampedusa. I missili fortunatamente non provocarono danno poiché caddero a 2 km dalle coste siciliane. Secondo alcune ricostruzioni, sembra che l’offensiva di Lampedusa fu un episodio fatto nascere da Gheddafi per coprire “l’amico italiano” che gli aveva salvato la vita agli occhi degli americani. Da qui si può iniziare a comprendere i rapporti “amici” tra l’Italia e la Libia, sempre velati da misteri poi svelate da fonti autorevoli.

Ci furono altri attentati attribuiti a Gheddafi. Il 21 dicembre del 1988 un aereo americano civile della compagnia Pan Am 103 esplode in volo e si schianta nella cittadina scozzese di Lockerbie provocando la morte di 270 persone. Nove mesi dopo, Martedì 19 settembre 1989 il volo di linea 772 della società aerea francese Union de Transports Aériens (UTA) partì da Brazzaville, capitale della Repubblica del Congo, diretto all’aeroporto parigino di Roissy. Prima della partenza fu imbarcata tra i bagagli, nella stiva anteriore del McDonnell Douglas DC-10, una valigia Samsonite di color grigio scuro. Il volo arrivò a N’Djamena, per uno scalo di un’ora regolarmente previsto nel piano di volo, e ripartì dalla capitale del Ciad alle 12.13. Durante la sosta scesero nove passeggeri e ne salirono 79. Tutto si svolse regolarmente.

Quarantasei minuti dopo il decollo da N’Djamena, mentre l’aereo sorvolava il deserto nigerino, esplose una bomba all’interno del vano bagagli anteriore. Morirono tutte le 170 persone a bordo dell’aereo, che viaggiava a oltre diecimila metri di altezza: 156 passeggeri e quattordici membri dell’equipaggio. I resti dell’aereo furono ritrovati la mattina successiva, sparsi per un’ampia area del deserto sabbioso insieme ai corpi delle vittime.

Dopo due anni, le indagini della polizia francese e statunitense, accusarono i servizi segreti libici degli attentati.

Il primo ventennio di potere, Gheddafi era un nemico pericoloso della Comunità Internazionale proprio per i suoi rapporti con i terroristi. L’Italia ha sempre avuto atteggiamenti ambigui per il semplice fatto che la Libia si trova a poche miglia dalle coste siciliane e per gli interessi che il nostro Paese gode in questa parte del territorio del Nord Africa.

Detto ciò, il secondo ventennio del potere di Gheddafi è stato caratterizzato da un atteggiamento differente, più vicino alle potenze occidentali ed ha segnato la fine di un isolamento che è durato venti cinque anni.

Nel 1990 Gheddafi condanna fortemente l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq e successivamente sostiene le trattative di pace tra Etiopia ed Eritrea dopo vent’anni di guerra. Quando Nelson Mandela fece appello alla Comunità Internazionale, a fronte della disponibilità di Gheddafi di consegnare i responsabili della strage di Lockerbie, l’Onu decise di ritirare l’embargo alla Libia.

Nel 1999 il colonnello si oppose ad Al-Qaida e nel 2003 iniziò a collaborare con le agenzie internazionali per il controllo del suo programma di mezzi di distruzione di massa. Il 15 maggio del 2006 gli Stati Uniti, dopo venti cinque anni, hanno riallacciato i rapporti con la Libia che si è pian piano allontanata dall’integralismo islamico. Grazie a questo radicale cambiamento di Gheddafi, l’allora Presidente americano, George Williams Bush decise di togliere la Libia dalla lista degli “Stati Canaglia” portando un equilibrio ed un ripristino dei rapporti diplomatici tra Libia e Stati Uniti.

Il problema è che quando parliamo di Gheddafi, ci riferiamo ad un dittatore instabile che un giorno è leale ed i giorni successivi diventa un nemico. Infatti, a partire dal 2008 le relazioni della Libia con i paesi europei hanno conosciuto una nuova tensione.

Infatti nel 2009, nell’anno in cui la Presidenza dell’Assemblea tocca alla Libia, quindi proprio a Gheddafi, il colonnello ne approfitta ed inscena un discorso accusatorio nei confronti dell’Onu. Da qui, inizia la fine di Gheddafi?

Il discorso di Gheddafi all’Onu, durato un’ora e mezzo, ha sicuramente destato preoccupazione ma la sua inaffidabilità era ben nota alla Comunità Internazionale, pertanto non una novità.

Il monologo, che attacca pesantemente l’Onu, nella prima parte è volto a difendere i talebani e apprezzare le mosse di Obama: “se i talebani vogliono fare uno Stato religioso come il Vaticano va bene. Il Vaticano costituisce un pericolo per noi? No. E se i talebani vogliono creare un emirato islamico sono nemici?”. E mentre Obama lascia la sala, il colonnello lo elogia: “è un figlio dell’Africa e un barlume di luce nel buio. Saremmo contenti se restasse presidente per sempre, ma siccome questo non può succedere, nessuno può garantire per l’America”. Pretende, altresì, una riforma radicale del Consiglio di Sicurezza definito dal rais “il consiglio del terrore” con un seggio permanente all’Unione Africana e l’eliminazione del veto Gheddafi critica l’Onu anche per l’incapacità di rispondere al suo compito fondamentale di prevenire le guerre.

Gheddafi parla anche dell’Italia, incassando l’applauso del Ministro degli Esteri Frattini, citando l’accordo raggiunto nei mesi scorsi, con il pagamento di danni per le sofferenze imposte ai libici sotto il fascismo: “tutte le potenze coloniali dovrebbero comportarsi allo stesso modo”. Anche questo passaggio, sull’Italia, è importante per capire meglio i rapporti tra il nostro paese e la Libia di Gheddafi.

Appunto, com’erano e come sono i rapporti dell’Italia con la Libia di Gheddafi e con quella attuale? 

I rapporti tra Italia e Libia vanno contestualizzati con il periodo storico. Provo a fare una sintesi, anche se è difficile.

Le relazioni tra la Libia e l’Italia sono state particolarmente difficoltose nei primi venti anni della Repubblica Araba di Mu’ammar Gheddafi soprattutto a causa di “contenziosi” del passato. La richiesta libica di risarcimento per danni coloniali e di guerra e i beni confiscati alle imprese e ai privati italiani nel 1970 rappresentano i due nodi principali dell’instabilità dei rapporti italo-libici.

Gheddafi voleva un risarcimento di danni causati dagli italiani nel corso della colonizzazione del periodo di guerra combattuto in suolo libico. Richiesta impraticabile, considerato che in tutta l’Africa, durante il colonialismo e la seconda guerra mondiale, ci sono stati conflitti e nessuno dei Paesi europei ha risarcito i propri “colonizzati”. Di contro, c’era la questione dei beni confiscati agli italiani che vivevano in Libia e che nel 1970 furono espulsi da Gheddafi. Infatti dopo l’avvento della rivoluzione libica, furono circa ventimila gli italiani, residenti in Libia, che subirono la confisca di tutti i loro beni in netta violazione del trattato italo-libico del 1956, stipulato sulla base della Risoluzione ONU del 1950 che sanciva il rispetto dei diritti e degli interessi delle minoranze residenti in Libia.

Il valore dei beni confiscati, calcolato dal Governo italiano, ammonta a circa 200 milioni di lire al solo valore immobiliare. Se aggiungiamo i depositi bancari e le varie attività imprenditoriali ed artigianali, il valore supera i 400 milioni di Lire che tradotti in euro si aggirano a circa 3 miliardi.

La confisca dei beni degli italiani è stata giustificata da Gheddafi come una quota di acconto rispetto al saldo preteso. Il Governo italiano da parte sua, per diminuire le pretese di Gheddafi, non ha mai chiesto né un risarcimento per il mancato rispetto del trattato italo-libico, né ha mai utilizzato nelle trattative il valore dei bene restituiti al popolo libico.

Le relazioni bilaterali tra il nostro Paese e la Libia sono migliorati a partire dal Comunicato congiunto Dini-Mountasser del 1998, fino alla stipula del Trattato di amicizia e cooperazione Bengasi nel 30 agosto del 2008.

Il primo punto di svolta si ebbe appunto il 4 luglio del 1998, quando a Roma fu firmato il Comunicato congiunto tra Libia e Italia, documento che prevedeva una serie di azioni dirette da parte del Governo italiano volte allo sminamento del suolo libico e alla realizzazione di progetti economici a cura di soggetti pubblici e privati italiani.

L’importanza della Libia per l’Italia si desume però dal trattato di Bengasi, risultato di un difficile e laborioso negoziato firmato dal Primo Ministro Silvio Berlusconi e da Gheddafi. Il trattato contiene al suo interno alcuni riferimenti strategici dell’Italia in Libia. Da una parte esso dava soddisfazione alla Libia e alle sue richieste riguardanti il periodo coloniale, stabilendo che il Governo italiano si impegnava a realizzare progetti infrastrutturali per un valore di 5 miliardi di dollari nei successivi 20 anni. Dall’altro lato l’accordo prevedeva collaborazione particolare per quanto riguarda il settore energetico, la lotta al terrorismo e la lotta all’immigrazione irregolare.

La Libia di Gheddafi, pertanto, diventa per l’Italia un alleato sulla sponda nordafricana e un fornitore di energia (gas e petrolio) fino alla guerra civile libica.

Rispetto alla situazione odierna, ci tengo a precisare che se pensiamo alla situazione libica come un contesto isolato ci sbagliamo di grosso, essa va inserita all’interno del quadro geopolitico mediterraneo ed è strettamente collegata alla situazione mediorientale.

I rapporti con l’Italia sono esclusivamente legati al contenimento dell’immigrazione.  L’Italia fornisce motovedette e soldi in cambio dell’arresto degli sbarchi. Il nuovo Governo ha isolato,nel peggiore dei modi, l’Italia. Non ha alcun progetto, non ha ruoli privilegiati per conferire con chi la guerra in Libia la sta creando. Non abbiamo una politica internazionale e neanche una politica europea. Come possiamo pretendere di svolgere un ruolo chiave per la soluzione del problema?

Quali furono e quali sono gli interessi strategici dell’Italia in Libia? 

Sono stati, ed in parte lo sono ancora oggi, quelli sanciti dal trattato di Bengasi. Per quanto riguarda la cooperazione energetica, la presenza della compagnia nazionale petrolifera ENI in Libia risale agli anni ’50. Eni è stata una delle prime compagnie petrolifere ad aver investito nel Paese ed ha esteso la sua presenza in Libia nel corso dei decenni successivi. Secondo alcune stime, nel 2010 (poco prima della caduta di Gheddafi), la Libia era il primo esportatore di petrolio verso l’Italia (rappresentava circa il 27% delle importazioni petrolifere di Roma) ed il terzo esportatore netto di gas (12,5%). Circa il 90% del gas prodotto in Libia veniva esportato attraverso il gasdotto Greenstream, che connette Mellitah, in Libia, a Gela. Il gasdotto è operato in join venture da ENI e dalla National Oil Corporation (NOC), la compagnia petrolifera libica. In quello stesso anno ENI produceva 273.000 barili al giorno di petrolio in Libia, circa il 15% della produzione totale della compagnia italiana. ENI era anche la principale compagnia petrolifera in Libia e produceva circa un quinto dell’output totale del Paese.

Oltre agli interessi energetici, la lotta contro il terrorismo era in linea con il nuovo corso libico adottato negli anni 2000. D’altra parte la lotta contro l’immigrazione irregolare è divenuta una delle principali priorità dei governi italiani nel corso degli ultimi decenni. Consapevoli del potente strumento di pressione su Roma, le autorità libiche hanno sempre utilizzato la carta dei flussi migratori per ottenere benefici dal governo italiano. Tuttavia, nel trattato di Bengasi vi era una specifica clausola che stabiliva una cooperazione approfondita tra i due Paesi per contrastare l’immigrazione clandestina: l’Italia si impegnava a fornire imbarcazioni per il monitoraggio delle coste libiche. Inoltre una specifica previsione stabiliva anche il monitoraggio delle frontiere terrestri, grazie a strumenti elettronici forniti espressamente da compagnie italiane.

Le primavere arabe hanno contribuito alla caduta di Gheddafi? Quale ruolo ha avuto l’Italia?

Certo, che hanno contribuito e la Comunità Internazionale ne ha approfittato.

Ispirati dalla Rivoluzione dei Gelsomini in Tunisia e dalla caduta di Hosni Mubarak in Egitto, diversi manifestanti scesero in strada per chiedere la fine del regime di Gheddafi. La successiva repressione convinse la comunità internazionale della necessità di intervenire. Allo stesso tempo, il Governo italiano che aveva una posizione privilegiata in Libia, rimase sorpreso. Tra l’altro, l’interventismo di alcuni paesi occidentali era difficile da contenere. La Francia di Nicolas Sarkozy stabilì una solida alleanza con Londra per sostenere i ribelli, mentre gli Stati Uniti di Barack Obama adottarono una posizione più cauta nonostante la volontà di allontanare Gheddafi. Ci sono diverse interpretazioni sull’interventismo della Francia. Alcune fonti ipotizzarono un accordo tra la Total, compagnia petrolifera francese, ed il National Transitional Concil, organo che rappresentava i ribelli che dopo la caduta di Gheddafi fu incaricato di gestire il periodo di transizione in Libia. I due “accusati” smentirono questo accordo ma i fatti successivi dimostrarono la veridicità di questa interpretazione.

L’Italia pertanto si è trovata, all’epoca, a fare una scelta difficile: sostenere Gheddafi e preservare la propria posizione privilegiata in Libia, o dare un contributo ai ribelli e alla caduta del regime di Gheddafi. Inizialmente Berlusconi ed il Ministro degli Esteri Frattini, ebbero una posizione attendista ma poi hanno ceduto alle aspirazioni interventiste degli altri paesi occidentali.

La caduta di Gheddafi inizia con la rivoluzione di Bengasi. Ci racconti di come il popolo si ribellò a Gheddafi e di come si arrivò alla sua uccisione. 

Eh, il racconto è lungo. Provo a sintetizzare ma mi viene difficile.

Tranquilla, se ci racconta episodi inediti siamo ben lieti di ascoltarla. 

La rivolta ebbe inizio a Bengasi, nel mese di febbraio. La gente si è riversata sulle strade per una protesta assolutamente pacifica. Il regime ha iniziato a sparare sula folla dei manifestanti. Centinaia di uomini e donne furono uccise. In quei giorni nella sede militare di Katiba c’era anche il figlio di Gheddafi, Saadi in compagnia di Abdullah Sanussi, il secondo uomo più importante del regime. Furono costretti a fuggire verso l’aeroporto internazionale. Qui, Saadi e Abdullah riuscirono a salire sull’aereo ma molti dei loro militari che li scortavano furono uccisi.

Lo scontro andò avanti per due giorni, fin quando Mohammed Ziu, un miliziano di Bengasi, decise di mettere alcune bombole di gas sulla sua auto e di schiantarsi contro il cancello di Katiba. I soldati continuarono a sparare e quel giorno morirono 200/300 persone. Da allora il regime ha sguinzagliato, contro i manifestanti, i mercenari facilmente riconoscibili poiché indossavano un casco giallo. Si trattava di immigrati, che lavoravano in Libia, costretti a fermare quella rivoluzione che a Gheddafi faceva paura. I cosiddetti caschi gialli di Gheddafi. Invece di intimidire i manifestanti, i caschi gialli fecero aumentare le folle rivoluzionarie. Molti di loro ormai sono armati.

In quel periodo la città di Bengasi viveva nella confusione e nel terrore. La gente aveva paura ad uscire di notte ma di giorno provava a far sentire la sua voce e soprattutto la sua presenza. Nessuno si sentiva al sicuro ma il profondo senso del dovere, quello che li spingeva ad andare avanti per liberare la città dall’opprimente e sanguinario regime, prevaleva su tutto. Anche sulla stessa sopravvivenza. Gheddafi pensava di risolvere quella rivoluzione con le armi e pensava di risolverla in poco tempo ma non fu così.

La rivolta si è trasformata in una insurrezione con più di 10.000 persone in strada decise a rovesciare il regime del colonnello. Gheddafi giura vendetta. Quando sembra che stia per avvenire un massacro, la Nato impone una No Fly Zone sulla Libia.

Il 23 marzo 2001 la NATO inizia l’operazione Unified Protector in conformità alla risoluzione del 1973 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per fermare la terribile violenza contro i civili libici. Gheddafi pensava che avendo al suo fianco esercito e milizie poteva controllare la rivoluzione e rimase sorpresa dell’intervento della Comunità Internazionale.

Rinvigorito dal sostegno della Nato, il popolo libico invade la città di Bengasi. L’esercito mercenario di Gheddafi inizia a defezionare e a disertare. A Bengasi iniziano i festeggiamenti.  La città di Bengasi è libera. Dopo alcuni giorni dalla liberazione, il popolo sentì udire delle voci dai sotterranei della struttura di Katiba (dove c’era anche la seconda casa di Gheddafi). Si trattava di una richiesta di aiuto da parte di prigionieri del regime di Gheddafi. Il popolo non era a conoscenza di ciò che accadeva a Katiba, pertanto rimase sconvolto quando trovo, dopo giorni di scavi con le ruspe, i prigionieri rinchiusi in una sorta di bunker al buio. Era un vero e proprio buco nero sottoterra. Dei superstiti raccontano che a Tripoli era ancora peggio. C’erano 62 basi militari come quella di Katiba con numerosi prigionieri del colonnello.

Nel frattempo Gheddafi aveva bisogno forze su cui fare affidamento senza legami tribali. Sapeva che molti di quelli che vivevano sul litorale settentrionale lo disprezzavano in quanto beduino. Così si fece amici i tuareg e i migranti neri. Molti furono incorporati nell’esercito. I tuareg non sono fedeli a nessuno Stato, per questo Gheddafi li ha assunti per fa parte del suo esercito. Si fida di loro. Ma non recluta solo tuareg, ma i mercenari di pelle nera. Gheddafi non aveva amici, ma se li comprava avendo tanti soldi. Lui aveva aerei e un vasto arsenale di armi tecnologicamente avanzate e strutture altamente tecnologiche. Queste attrezzature potevano essere utilizzate solo da personale adeguato. Per questo ha assunto i mercenari ucraini e russi, soprattutto cecchini e piloti di aerei.

Così i ribelli sono stati costretti a combattere con chi aveva i mezzi più avanzati per vincere una guerra. Loro avevano solo i pick-up attrezzati con i fucili. Avevano però un altro elemento a loro vantaggio: combattevano per la loro stessa vita e non come i mercenari che combattono per soldi. Dopo la vittoria di Bengasi non vedono l’ora di espandere la Rivoluzione. Il loro prossimo obiettivo è Ez Zawia. Conquistarla vuol dire ridurre lo spazio vitale di Gheddafi. Qui c’era una raffineria importante e il porto. Gheddafi però non si arrende. La città viene insediata e diventa lo scenario di brutali combattimenti. Quando i ribelli entrano in città per la seconda volta si trovano ad affrontare i cecchini mercenari arruolati da Gheddafi. Nonostante le formidabili forze pro Gheddafi, i ribelli riescono a cacciarli da Ez Zawia bloccando la fonte di ricchezza di Gheddafi. A questo punto i miliziani ribelli possono concentrarsi su Tripoli, ultima roccaforte del colonnello. Il 20 agosto i ribelli lanciano l’operazione Alba della Sposa di mare. Ciò che resta dell’esercito di Gheddafi sono i mercenari. Mentre i ribelli si avvicinano a Tripoli, liberano i villaggi circostanti, strada per strada. C’erano 4 fronti su cui si faceva la battaglia per la conquista di Tripoli. Inizialmente i ribelli si trovavano sul fronte meridionale, quello più importante che gli permise di controllare l’aeroporto internazionale per evitare la fuga di Gheddafi, poi dovettero conquistare gli altri tre fronti prima di arrivare a Tripoli.

I ribelli combattevano per il martirio. Sono musulmani e aspirano al martirio, come principio profondo di difesa della loro Patria. E’ questa la differenza. Ed è stata anche la loro forza. Se sei mercenario, quindi ti limiti a svolgere il tuo lavoro, vuoi arrivare a fine giornata vivo. Se sei un forte sostenitore della tua Patria e sei convinto di voler essere un martire e se hai anche una K47 in mano, diventi pericoloso: vuoi uccidere quante più persone possibili per la tua missione sapendo di morire prima della fine della giornata. Per questo motivo, Gheddafi si trovò da solo.

L’11 aprile del 2011 l’Unione Africana propose a Bengasi un piano di pace al Consiglio Nazionale di Transizione. Abdelhafez Ghoqa, Portavoce del Consiglio Nazionale di Transizione, risponde dicendo che “qualche mese fa avevano proposto a Gheddafi un cessate il fuoco ma lui ha violato ripetutamente l’appello, continuando gli attacchi e uccidendo i civili”. Continua parlando davanti a tutte le tv nazionali, dicendo che gli “è stato proposto un accordo di pace senza nessuna assicurazione, da parte dell’Unione Africana, sull’esilio di Gheddafi e la sua famiglia. Per questo motivo non è possibile cessare il fuoco, mentre le milizie del colonnello, tra l’altro, continuano gli attacchi”. Nello stesso giorno, il Presidente del Consiglio Nazionale di Transizione, Mahmoud Jabril, invita Gheddafi a lasciare immediatamente il potere

Tripoli era la sede del potere di Gheddafi, come Berlino per Hitler, e Gheddafi sapeva che era vicino alla fine. Nella capitale libica, il fuoco si apre.

Il 22 agosto la città era capitolata. Nell’arco di 3 giorni i miliziani avanzavano costringendo Gheddafi e le sue forze al ritiro nel palazzo di Babala Zizia, la casa, la fortezza ed il centro operativo di Gheddafi. Qui aveva un bunker sotterraneo a prova di bomba dove si trovavano i servizi segreti del colonnello. I ribelli devono affrontare una serie di bombardamenti. Non era facile bombardare la fortezza di Gheddafi. Nel frattempo i mercenari sono scomparsi all’orizzonte. La consapevolezza di una vittoria, i ribelli la ebbero quando arrivarono nella statua d’oro che abbatterono. Per assumere il controllo, i ribelli dovevano conquistare il palazzo. Un bersaglio di 6 km molto difficile da affrontare. I ribelli hanno eliminato ogni segno che ricordava la dittatura di Gheddafi ma non avevano ancora stanato il colonnello. Babala Zizia aveva dei tunnel segreti e fortificati. Gheddafi era scappato. Non c’era nel palazzo. Forse è scappato da uno dei tunnel segreti. Babala Zizia fu distrutta. Oggi non è altro che una discarica odiata dai libici.

Qualcuno ha dato notizia che Gheddafi si trovava nel deserto a sud. E’ andato a Sirte, la sua città natale, e i ribelli lo inseguono. Qui si è trovato accerchiato. A occidente c’erano le milizie di Misurata. Per questo lo hanno convinto a scappare, l’idea era di dirigersi al sud verso il Niger. Qualcuno ha visto il suo corteo di automobili lasciare Sirte. I mezzi vengono bombardati dagli aerei Nato. Riuscito ad uscire dalla sua auto bombardata, si nasconde in una tubatura di scarico. Era ferito da un colpo da arma da fuoco. Viene trascinato fuori dalle milizie di Misurata, percorso e umiliato. Le immagini hanno fatto il giro del mondo. Gheddafi è morto e i ribelli conquistano il potere. I ribelli rastrellano la città e uccidono i fedeli di Gheddafi. Non avendo una politica unica, ogni milizia è libera di applicare la giustizia più adatta per i mercenari.

Dopo la caduta di Gheddafi, quali conseguenze per la Libia e per il mondo occidentale? Quali responsabilità dell’Occidente?

La situazione è quella che ho spiegato nella prima domanda. A condizionare gli equilibri politici nazionali sono attori locali (città, tribù, milizie), i quali si presentano frammentati e, soprattutto, armati. Tra criminalità, regolamenti dei conti politici e ideologici e scontri tribali, le autorità di transizione sono totalmente impotenti ed il paese è caduto in anarchia con una crisi politica ed economica senza precedenti. Il processo di transizione doveva concludersi dopo pochi mesi con l’adozione di una Costituzione. Proprio per la mancanza di progressi nel processo costituzionale, il Congresso Nazionale ovvero il Parlamento provvisorio, ha annunciato l’estensione del suo mandato fino al 2014. Decisione che ha diviso le forze politiche, le milizie e la popolazione.

Non servì nè l’operazione UNSMIL dell’Onu, nè l’impegno degli Stati Uniti poichè entrambi gli interventi avevano lo scopo di stabilire la sicurezza disarmando le varie milizie. I compiti essenziali di stabilire la sicurezza, di ricostruire le Istituzioni Politiche, e di riavviare l’economia, tuttavia, sono stati lasciati quasi interamente ai leader della Libia, da cui ci si aspettava, inoltre, che pagassero il prezzo maggiore della ricostruzione, data la ricchezza petrolifera del Paese.

La Libia, però, aveva bisogno di altro. Di una vasta revisione delle Istituzioni preposte alla sua sicurezza interna per divenire uno Stato moderno funzionante. Uno dei problemi più gravi della nuova Libia era rappresentato da gruppi armati e dalle brigate rivoluzionarie che avevano combattuto durante la guerra contro il regime che stavano diventando una delle principali fonti di insicurezza.

Le forze ribelli che avevano rovesciato Gheddafi erano altamente frammentate. Inoltre, dopo la caduta del regime, si sono formati altri gruppi armati tra cui quelli dei jihadisti a nord. A posteriori era chiaro che alcuni di questi gruppi armati erano già una minaccia per la sicurezza interna. Disarmare e consolidare il controllo di questi gruppi armati è stata una priorità per il Governo “ad interim” di Abdul Raheem di Al-Keeb dal momento in cui ha prestato giuramento, il 24 novembre, ma la sfida si è dimostrata insormontabile. In assenza di una forte e legittimata autorità centrale, con una popolazione pesantemente armata, un processo di smobilitazione e reintegrazione in fase di stallo, i conflitti interni hanno cominciato a proliferare in tutta la Nazione pochi mesi dopo la fine della guerra. La violenza ha assunto svariate forme, che sono andate dalle dispute tribali.

Bisogna anche aggiungere che a livello istituzionale la Libia è contesa fra due autorità che non hanno reale controllo sul territorio: una a Tripoli e l’altra a Tobruk. L’autorità con sede a Tobruk, nell’est del paese, è il parlamento democraticamente eletto e riconosciuto in Occidente (ONU, USA, Francia, Germania, Italia e Regno Unito), ma che non riesce a governare che una piccola porzione del Paese. Invece a Tripoli risiede il Congresso Generale Nazionale (CGN), caratterizzato da un sostegno dei miliziani islamici della coalizione Alba Libica. Il CGN, rivendicando ancora la legittimazione popolare ricevuta con la vittoria alle elezioni del 2012, si è rifiutato di lasciare l’incarico di governo al nuovo esecutivo uscito vincitore dalle elezioni del 2014. Ognuno dei due governi è appoggiato da un coalizione di bande, milizie e signori della guerra locali. Di fatto, la Libia è oggi uno stato fallito, dove non esiste più un potere centrale e dove l’autorità è esercitata, quando è esercitata, dalle milizie locali. Tra i due governi c’è una relazione molto complicata: i loro emissari si incontrano spesso ai tavoli delle trattative organizzati dagli inviati dell’ONU, ma trovare un accordo per un cessate il fuoco è reso complicato dal fatto che il controllo che i due governi esercitano sulle loro stesse milizie è molto labile. Di fronte a questo quadro drammatico, si fa sempre più forte l’avanzata del generale Haftar.

Quindi, secondo lei, l’Occidente ha delle responsabilità ben precise?

Si certamente, ha delle responsabilità enormi. Gliele voglio raccontare portando le parole di due politici di alto livello.

Il primo è l’ex Presidente degli Stati Uniti Barack Obama che vicino al termine del suo secondo mandato, in un’intervista al settimanale The Atlantic, definì un “disastro” la situazione in Libia, ed un “errore” il suo sostegno all’intervento Nato, voluto dagli alleati di Londra e Parigi. A volere la guerra, per ragioni geostrategiche, fu infatti, soprattutto l’allora presidente francese Sarkozy, che sobillò la rivolta anti-Gheddafi per ottenere il controllo del petrolio libico e per scongiurare la creazione da parte del Raìs di una nuova moneta unica per gli scambi all’interno dell’Unione Africana.

Il secondo è Naser Seklani, ex deputato libico, tra i primi ad aderire alla rivolta del 2011 e che oggi si chiede se quella fu una vera rivoluzione: “Siamo stati felici di liberarci di Gheddafi, ma adesso cominciamo a chiederci chi realmente abbia portato avanti la rivoluzione e sentiamo che non si sia trattato di una vera rivoluzione libica ma sia stata il frutto di una decisione internazionale”. Ha detto Seklani in una intervista rilasciata alla Bbc. “Quello che stanno facendo ora le Nazioni Unite prova questa teoria “perché hanno imposto persone che vengono da fuori (Sarraj a capo del Governo di Unità Nazionale) e che i libici respingono perché arrivano per lavorare a favore degli Stati Uniti, dell’Europa, del Qatar e non del popolo”.

Ecco, credo che queste due interviste, seppur in breve, chiariscono ogni dubbio sulle responsabilità principali della Comunità Internazionale sulla caduta di Gheddafi e sulla successiva crisi libica mal gestita dalle Nazioni Unite.

C’è da dire, inoltre, che Il caos libico ha provocato la destabilizzazione dell’intera area sahelo-sahariana. Ilconflitto in Mali del 2012 e il rafforzamento dei gruppi jihadisti e criminali operanti nella zona, con i fiumi di armi arrivate nelle mani dei terroristi attraverso i confini porosi del deserto del Sahara, sono solo alcune delle conseguenze della rivoluzione del 2011. Solo alcune.

Si è parlato molto dell’avanzata del generale Haftar e di una possibile guerra civile. Lei cosa pensa? Quali saranno le conseguenze? Ci può essere una soluzione per una trattativa di pace? 

Sull’avanzata del generale Haftar dico che era prevedibile. Già nel 2016 Haftar ha conquistato le infrastrutture petrolifere che si trovano nella cosiddetta “Mezzaluna del petrolio”, tra Sirte e Bengasi. Adesso la situazione è degenerata perchè non si è mai voluta trovare una soluzione concreta, sin dall’inizio. Ormai le milizie e le tribù sono ben organizzate e schierate. Quindi, si, è possibile l’inizio di una guerra civile che, se dovesse avvenire, porterà conseguenze enormi per tutta la Comunità Internazionale ed in particolare per il nostro Paese che si trova a due passi dalla Libia. Prima fra tutte una nuova ondata migratoria che potrebbe essere caratterizzata da pericoli di terrorismo visto che il caos libico sta riportando in Libia i foreign fighters che fuggono dalla Siria.

Non so se adesso è possibile trovare una soluzione concreta, quello di cui sono certa è che le soluzioni andavano trovate prima che la situazione diventasse una emergenza e che per trovare una soluzione concreta si deve anteporre il bene collettivo agli interessi personali dei vari Stati. Ergo, se noi pensiamo solo agli interessi economici dei singoli Stati, non possiamo pretendere di essere in grado di gestire una crisi come quella della Libia. Tutti i tentativi, che sono andati in questa direzione sono falliti. Compresi quelli che hanno portato in Siria la distruzione di un intero territorio. Ecco, temo che in Libia possa accadere la stessa cosa, se non peggio.

Lei, che di immigrazione si intende, pensa che davvero possano venire in Italia 800 mila migranti? 

Assolutamente no. La provocazione di Sarraj, quella in cui dice che ci sono 800 mila migranti pronti a partire per l’Italia, è un patetico tentativo di cercare aiuto visto che è rimasto solo ed isolato. Semmai possono aumentare le partenze, che già ci sono e restano invisibili. Per aumento delle partenze intendo che, nel caos della Libia, con l’apertura dei centri di detenzione e la liberazione dei migranti che sono anche costretti a combattere una guerra che non è la loro, certamente ci sarà una nuova emergenza che nei numeri è comunque contenuta e contenibile. Male che possa andare, ne partirebbero un centinaio al giorno. Ammesso e concesso che trovino le grandi imbarcazioni che negli anni sono state distrutte a favore dei gommoni acquistati dai trafficanti.

Cosa dovrebbe fare, secondo la sua opinione, l’Italia per fronteggiare una possibile nuova emergenza migratoria? 

Chi si occupa di immigrazione, come me ne occupo io, sa come affrontare l’emergenza. Con professionalità, umanità, rispetto delle norme e dei trattati internazionali, procedure di identificazione, impronte e accertamento delle fedine penali.
Dubito invece che questo Governo italiano sia in grado di organizzare l’accoglienza. Dopo aver eliminato il sistema di accoglienza efficace, ridotto le risorse umane negli Hotspot e abolito i percorsi professionali necessari per l’accoglienza, ci troveremo di fronte ad una emergenza da affrontare in modo approssimativo. E allora si che ci sarà il caos.

Si possono chiudere i porti? Salvini li chiuderà? 

Assolutamente no! Non si possono chiudere i porti soprattutto perchè stiamo parlando di migranti che fuggono da una guerra. La Libia è in guerra sin dalla caduta di Gheddafi e questo Governo non lo ha ancora ben capito. La Libia è luogo di torture, di negazioni dei diritti fondamentali dell’uomo, di atrocità indescrivibili. Chiunque viene dalla Libia ha diritto a fare Domanda di Asilo Politico, anche coloro che da anni sono intrappolati in quei lager dell’orrore. Pertanto, Salvini non può annunciare promesse false. Che poi, per onor di legge, i porti sono di Competenza del Ministero delle Infrastrutture e ad oggi nessun atto ufficiale ha previsto la chiusura dei porti. Infatti a Lampedusa, continuano a sbarcare migranti senza che nessuno ne da notizia. Non tollero chi, nella sua incompetenza totale, fa campagna elettorale sulla pelle dei più deboli promettendo soluzioni che non si possono applicare nel rispetto della legge e aizzando all’odio. La politica è una cosa seria e riguarda la vita di tutti i cittadini italiani e anche di coloro, così come previsto dalla nostra Costituzione, chiedono Asilo nel nostro Paese.

La Mafia esiste. Non lo dimentichiamo

di Gian Carlo Caselli
Da Napoli a Foggia, passando per Milano: tre delitti che ricordano qual è il principale pericolo per la democrazia. Il governo la rimetta al centro dell’agenda politica

In pochi giorni tre delitti gravissimi. A Napoli, nel quartiere di San Giovanni a Teduccio, un raid criminale uccide Luigi Mignano mentre accompagna il nipotino a scuola; a Milano, “Enzino” Anghinelli, in sosta sulla sua auto ferma al semaforo, viene gravemente ferito alla testa da un killer che lo affianca con uno scooter; a Cagnano Varano (Foggia), due carabinieri vengono aggrediti per strada a colpi d’arma da fuoco: uno rimane ferito, l’altro ucciso (il maresciallo Vincenzo Di Gennaro).
L’episodio di Napoli viene riferito ad una faida di camorra. Per quello di Milano si ipotizzano questioni di droga. Quanto successo nel Foggiano sembra essere la criminale reazione di un pregiudicato ad un controllo di polizia. Del primo e del secondo fatto non si conoscono ancora gli autori. Nel terzo caso c’è stato un arresto, tal Giuseppe Papantuono, un pregiudicato di cui si hanno – oltre al nome – le foto della cattura. Diffuse anche dal ministro degli Interni Matteo Salvini, che subito ha decretato (non essendovi la pena di morte) la condanna all’ergastolo dell’arrestato.
I tre fatti, pur riconducibili a matrici diverse, sono comunque assai preoccupanti, sia singolarmente considerati sia valutati nel loro insieme. A Milano emerge una città “oscura e c’è una tribù che, correndo sul filo del rasoio e rischiando di cadere, l’attraversa” (Piero Colaprico); mentre la procura antimafia parla con sorpresa di un agguato che riporta indietro Milano di trent’anni. Perché anche a Milano si torna a sparare, in controtendenza con la mafia 3.0 interessata ad assumere un’apparenza sempre più “per bene”, funzionale al tranquillo sviluppo del proprio business. A Napoli invece si constata l’eterno perpetuarsi di un feroce dominio armato della camorra. Infine, l’omicidio del maresciallo potrebbe essere il gesto di un criminale isolato, ma sullo sfondo si profila in ogni caso la mafia del foggiano, oggi fra le più agguerrite.
Appare comunque chiaro che la mafia continua ad essere uno dei più gravi problemi del nostro paese. Il più grave per la qualità della democrazia. Ora, ci si può dividere su tutto. Persino all’interno del governo (dove per altro un po’ più di unità non guasterebbe per nulla). Ma su una sola cosa non è mai consentito dividersi. Ed è proprio la mafia. Che rappresenta un pericolo così esiziale per il sistema-paese ( con le sue infiltrazioni nella politica, nell’amministrazione, nell’economia e nelle istituzioni) da esigere un fronte comune e compatto di contrasto: non divisioni ricollegabili – al di là dei proclami e delle invettive un tanto al kilo – ad interessi di bottega, magari di propaganda politica contingente.
Per contro, sembra riproporsi il solito rimpallo tra chi chiede più risorse contro la criminalità e chi ribatte di averne messe in campo come mai in passato; oppure lo scarico di responsabilità fra chi sostiene che non basta fare la faccia feroce e chi accusa gli altri di essere capaci soltanto di stare a guardare. Col rischio che la questione mafia rimanga di fatto relegata (come troppo spesso accade) nelle posizioni di retroguardia dell’agenda politica, ben più sensibile alle questioni che – specie se strumentalmente enfatizzate – si calcola possano portare più voti.

Migranti, che fare?

di Salvo Vitale
Sui migranti non è facile fare chiarezza, rispetto a tutti quelli che hanno la pretesa di trovare soluzioni, di esprimere condanne, di dare attestati di benemerenza e soprattutto di dire banalità su cui non si può non essere d’accordo, spacciandole per argomenti con cui alimentare inesistenti classificazioni tra buonisti, xenofobi, razzisti, umanitaristi ecc.
Il problema degli spostamenti di massa dai cosiddetti paesi sottosviluppati verso i paesi industrializzati sta caratterizzando questo momento storico, anche se è sempre stato presente nella storia dell’umanità: si pensi alle “emigrazioni” dei secoli passati, a quelle di interi popoli, le invasioni barbariche, a quelle, in tempi più recenti, soprattutto verso le Americhe. Bisogna prenderne atto e attrezzarsi per regolamentarlo e non esserne sommersi, senza guidicarlo come un’invasione, un pericolo o un attentato all’identità nazionale.

1. La prima considerazione su cui alcuni storcono il muso è che il migrante fugge dalla sua terra per sua scelta. E’ una scelta dettata da problemi di varia natura, dalla fame alla miseria, alla mancanza di strutture che si occupino della crescita e dell’istruzione, a malattie varie, alle guerre tra un paese e l’altro, ma anche ai conflitti intestini tra bande e milizie che lacerano alcuni stati, imponendo con la violenza la cancellazione dei più elementari diritti umani. Quindi, assieme alla volontà di dare una svolta alla propria vita esistono anche le condizioni che motivano l’atto volontario. Si può solo immaginare il dramma di chi vende tutto per racimolare un migliaio di dollari per affrontare l’ignoto, ma si può anche obiettare che con questa somma si potrebbe comprare un’arma, un attrezzo, e lottare, assieme ad altri che si trovano nelle stesse condizioni, per rendere migliore e vivibile la propria terra. Anche qua l’obiezione è che non tutti hanno il coraggio di combattere e preferiscono attraversare deserti, finire nei lager, dove subiscono sofferenze di ogni genere, prima di trovare il posto in barca, il passaggio con cui attraversare il mare. Sembra che l’unica iniziativa possibile sia la scelta di andar via verso l’ignoto, non quella di investire il proprio capitale sul proprio territorio, morire o lasciarsi uccidere, pur di andare altrove, anziché lottare per restare.

2. Da più parte si suggerisce, senza che se ne faccia mai niente, che gli stati europei dovrebbero investire i capitali che spendono per l’accoglienza, creando nei paesi di provenienza le condizioni perché i fuggitivi possano restarci. Tutto questo deve fare i conti con le “sovranità” dei singoli stati e con la volontà dei destinatari, spesso assente, di accettare questi contributi. In tal senso c’è sempre la vecchia storia del dover considerare che c’è chi metterebbe subito le mani su questi “investimenti” per appropriarsene, così come c’è chi, avendo per scelte religiose considerato “nemico” l’occidente, potrebbe boicottare queste intromissioni. Sono spiegazioni parziali quelle che attribuiscono agli europei la responsabilità del depauperamento delle ricchezze, soprattutto del continente africano: c’è stato un colonialismo selvaggio di conquista e adesso di sfruttamento, ma vanno anche valutate le enormi risorse che sono state investite dal capitalismo europeo e americano in quei territori e il notevole contributo dato ai “nativi”, ai quali è stato dato lavoro e con l’innalzamento, in alcune zone, del tenore di vita delle popolazioni. L’Africa possiede enormi risorse che non sa sfruttare. Vari i motivi: dalla mancanza di capacità imprenditoriali, alla mancanza di mezzi, alla scarsa confidenza con i circuiti commerciali, alla solita presenza di “cricche” di potere fazioni, tribù, milizie, soprattutto indigene che mettono le mani sulle risorse per spadroneggiare, impedendo in più casi anche il decollo economico del proprio territorio. Anche in questo le colpe vanno redistribuite e non si può scaricarle solo e sempre sull’occidentalismo sfruttatore.

3. La classificazione tra “rifugiati”, profughi, migranti economici ecc. è quella con cui i singoli stati tentano di regolamentare il problema dell’accoglienza o del respingimento. Chi fugge dalla sua terra sa bene a cosa va incontro e ne accetta i rischi. Ma altro è andare nella terra di nessuno, altro entrare in una terra che non è la propria e “imporre” la propria presenza in un paese che ha proprie regole che bisogna rispettare e propri confini entro i quali ci si muove a certe condizioni. Quella della clandestinità non è la scelta più felice e rende problematiche le politiche di accoglienza. L’idea di “regolarizzare i flussi”, cioè di consentire ai vari paesi europei l’accoglienza “legale” di un certo numero, regolarmente programmato, al momento sembra fallita, per l’arroccamento di alcuni paesi europei guidati da leaders che vogliono dare un’immagine di forza e di salvezza dell’identità nazionale, ingigantendo un problema di per sé irrilevante: quale danno potrebbe arrecare l’accoglienza di qualche migliaio di profughi da utilizzare, a certe condizioni, in lavori di gestione della vivibilità?

4. E’ vero che l’Italia è stata lasciata sola dal resto d’Europa a gestire un fenomeno che l’ha colta impreparata, ma è vero che sulla pelle dei migranti si è costruito un grande affare che ruota dai paesi di partenza, che spremono le residue risorse racimolate, ai trafficanti di esseri umani, ai fabbricanti di barconi, gommoni, motori, ai mezzi di soccorso (le famose ong) a mare, alle strutture d’accoglienza a terra, ai tempi di accertamento delle condizioni, spesso lunghi per anni. Chi è sistemato nei centri d’accoglienza diventa una sorta di “mantenuto” dallo stato, in attesa del sospirato permesso di soggiorno, senza che gli venga chiesta una contropartita in lavoro. Vedere queste forze-lavoro immobilizzate, parcheggiate, alimentate, vestite, senza far niente, o costrette ad inventarsi qualcosa, spesso poco trasparente, pur diuscire dal limbo, è stata una delle cose più penose del passato momento dell’accoglienza. Adesso che i fondi sono stati tagliati, costori sono diventati “fuoriusciti”, ovvero clandestini nelle mani di chi è pronto ad acquistare la loro vita per sfruttarla.

5. Suscita sdegno nella maggioranza di coloro che amano i propri figli l’abbandono dei minori. C’è chi manderebbe in carcere i genitori che se ne rendono colpevoli. L’immagine del migrante con il proprio bambino morto in braccio ha fatto il giro del mondo, suscitando pietà, ma, dopo il momento dell’umana compassione qualcuno si è chiesto se non ci fosse una responsabilità del padre, che avrebbe esposto il bambino al rischio della morte, essendo i genitori responsabili della sicurezza dei figli. Ancor peggio è la vendita. Sui 7000 minori che scompaiono ogni anno poco si indaga, ma non ci vuole molta immaginazione per pensare che essi finiscono in condizioni di schiavitù, o peggio ancora come materiale per il traffico di organi di esseri umani. Difficile trovar comprensione per coloro che abbandonano i propri figli oltre le barre del muro voluto da Trump, né tantomeno per chi, per contro, vuole separare nuclei familiari in fuga.

6. La questione ruota quindi attorno al suo duplice aspetto di affare politico ed affare economico: la sua ragion d’essere serve ed è servita alle attuali insorgenze di rigurgiti di destra, di politiche xenofobe, di ottusi nazionalismi, secondo strategie che funzionano, specialmente in momenti di difficoltà economiche: trovarsi dentro ospiti indesiderati con cui dividere non solo il cibo, ma tutte le fasi dell’esistenza, è sempre un argomento strumentalizzabile e politicamente vincente, sia per chi si fa paladino della lotta al fenomeno, sia per i gruppi sociali di potere che mirano a strategie militaresche, a restrizioni degli spazi democratici, in nome della sicurezza: nessuno vuole seriamente regolamentare un fenomeno che tutto sommato fa comodo, procura voti, attiva giri d’affari e costituisce un ottimo diversivo per non spostare l’attenzione verso temi più scottanti.

7. Per non parlare della vecchia e sempre funzionante strategia del “nemico”, costruire un nemico verso il quale dirottare ogni responsabilità, sia esso il comunismo, l’Europa, il migrante, il diverso, lo zingaro, l’ebreo, l’omosessuale,quasi sempre il più debole, rispetto al quale si può accreditarsi come vincenti. C’è poi la possibilità, sempre comoda per ogni forma di capitalismo, di poter disporre di forza lavoro a basso costo, che sfugge ai controlli, non richiede costi aggiuntivi per il pagamento di contributi e messe in regola, e consente di realizzare un plusvalore economico superiore a quello che possono offrire le unità di lavoro locali.

8. Tra le tante cause alla base delle sconfitte della sinistra va anche valutato il non aver saputo fare un’analisi chiara del problema e di avere regalato a Salvini anche i notevoli risultati “restrittivi” ottenuti da Minniti, additato, soprattutto dalla sinistra della sinistra, come il responsabile delle sofferenze e delle morti di migranti in mare e nei centri profughi della Libia. Il fatto è che, rispetto al cambiare dei tempi, analisi e strategie sono rimaste quelle vecchie, mentre altri le hanno aggiornate rispetto alle nuove esigenze, alle crisi economiche ed occupazionali e alle cambiate sensibilità. Il cosmopolitismo illuminista, la fraternitè universale, l’internazionalismo proletario e anarchico, “nostra patria è il mondo intero”, persino la solidarietà cristiana negli anni della pace sono diventati, per gli spiriti sensibili un modo quasi naturale di pensare, salvo poi diventare bersaglio di coloro cui la pace non piace, che hanno bisogno del nemico per dare un senso alla propria esistenza. E quindi risorgenze di beceri nazionalismi, oggi ridefiniti sovranismi, innalzamento di muri, potenziamento degli armamenti, esibizioni di muscoli, il tutto a protezione della costante divaricazione della forbice che drena le risorse da chi ha meno a chi ha di più e che è destinato ad avere sempre di più, a meno che non rispunti da qualche parte la voglia di riequilibrare i rapporti di potere e di ricchezza con prove di forza che, con termini diversi si chiamano rivoluzioni.

9. Il perno su cui tutto finisce per ruotare è quello della legalità. Chi si sposta dovrebbe avere le carte in regola per essere ammesso nel paese in cui vuole essere ospitato. Essenzialmente il passaporto e il permesso temporale di soggiorno. Sicuramente si pagherebbe molto meno il viaggio con regolare biglietto. Il “viaggiante”, se beccato con permesso scaduto va rimandato a casa. Chi utilizza forza lavoro illegalmente va punito severamente, tanto quanto chi si presta a farsi sfruttare. I sistemi di accoglienza vanno riconsiderati e riservati a particolari condizioni, ma sempre rispettando il principio che i loro costi sono a carico di chi ne usufruisce, e quindi l’ospite deve compensare con il lavoro che gli viene affidato i servizi che gli sono dati. Tutto questo in un percorso d’integrazione di cui vanno fissati i tempi e la valutazione. Chi delinque va rispedito a casa. Questa sostituzione della legalità con l’attuale “terra di nessuno” che caratterizza l’intera questione, comporterebbe il rischio di lasciare senza occupazione chi si occupa della repressione dell’illegalità. Più o meno come, al momento stanno restando disoccupati tutti coloro che si occupavano della gestione dei centri di accoglienza adesso chiusi. Resterebbero senza lavoro i fabbricanti di gommoni e fuoribordo, coloro che li acquistano, i gestori dei lager libici, il sottobosco che li alimenta, le Ong, le motovedette, i militari, le missioni, i protettori ecc. In pratica l’antinomia di tutto questo è lasciar dire a Salvini che è necessario il rispetto delle regole, quando qualsiasi società civile si fonda e di deve fondare su di questo, ed essere giudicati cattivi se si dice che l’accoglienza indiscriminata senza se e senza ma è un lusso che in questa fase non si permette nessuno stato. Addirittura si rischia una pericolosa inversione delle parti, come se essere buonisti comporti andare oltre il rispetto delle leggi e come se l’applicazione delle leggi sia una prerogativa del cattivo.

10. Un esempio: senza nella togliere a quanto ha fatto Mimmo Lucano, bisogna pur dire che tutto il sistema ha funzionato sino a quando ha potuto disporre di sovvenzioni statali, ma che lo Sprar non ha potuto erogare un milione di euro perché non c’erano fatture né pezze d’appoggio, né contratti tra il Comune e i privati che hanno ristrutturato con denaro pubblico e messo a disposizione dei migranti gli alloggi. In pratica il sistema non si è reso autonomo, non ha cercato né creato sbocchi commerciali e non è stato posto rimedio alle contestazioni fatte nel corso delle ispezioni. Forse era ancora presto e potevano esserci altri sviluppi, ma il solo sospetto che potesse esistere la possibilità di un “modello virtuoso” di riferimento ha fatto insorgere la reazione e provocato la chiusura dell’esperienza. E’ vero che la ricerca esasperata della legalità avrebbe bloccato l’intero sistema, ed è anche vero che la magistratura, magari su pressioni del Ministero, ha avuto buon gioco nel trovare gli aspetti deboli in cui si è dispersa l’applicazione della norme. Ed è in questo perverso gioco di aperture e chiusure, di ciò che è consentito e ciò che è tollerato, di rigidità ed elasticità, di tolleranza e intolleranza, di permissività e di autoritarismo, di spregiudicatezza elettorale e di comprensione umana, di rigore e di arbitrio, che le umane vicende si intrecciano in una serie di complesse situazioni e di aperte problematiche dalle quali non è semplice né facile trovare il filo che dipana la matassa, la via d’uscita, proprio perché c’è in mezzo la vita, la pelle e il futuro di esseri umani ai quali viene negata la facoltà di decidere come costruire la propria vita. Purtroppo siamo arrivati in una fase in cui è diventato difficile persino dire che questo è un problema e che bisogna attrezzarsi per superarlo, al di là degli schematismi ideologici e politici, in nome dell’umanità. Chi non ricorda le inconsulte reazioni di certa gente, questa estate, in occasione della giornata delle magliette rosse?

Le minacce di G. Giuliano a Paolo Borrometi

di AMDuemila
Ieri la prima udienza del processo con le testimonianze degli investigatori

Da un telefonino nella disponibilità di Gabriele Giuliano, accusato insieme al padre Salvatore (indicato dalla Dda di Catania come il boss di Pachino) di tentata violenza privata e minacce di morte, aggravate dal metodo mafioso e dall’appartenenza al clan, sarebbero stati inviati dei commenti lesivi ai danni del giornalista Paolo Borrometi. A confermare il dato è stato l’assistente della polizia postale, Fabio Bruno, sentito ieri durante la prima udienza dl processo che si sta celebrando davanti la Corte di Assise di Siracusa. “L’indirizzo Ip – ha riferito il teste – era associato a più utenze, una di queste faceva riferimento alla coop dove lavorava Giuliano”. Le indagini presero il via il 22 agosto 2016 dopo un commento sul profilo Facebook del giornale online laspia.it (di cui Borrometi è il direttore) dopo il quale, come ha rivelato ieri in udienza il carabiniere del comando provinciale di Siracusa Paolo Saccuzzo, gli investigatori si recarono nell’appartamento di Gabriele Giuliano per una perquisizione al fine di acquisire il telefonino poi sottoposto a sequestro. La difesa, rappresentata dall’avvocato Giuseppe Gurrieri, ha dunque chiesto al Collegio, presieduto dal giudice Antonella Coniglio, di disporre una perizia sul contenuto dei messaggi e dei commenti sul social, i cui screenshot si trovano nello smartphone sequestrato. Il tribunale si è riservato di decidere. Il processo è stato rinviato all’udienza del 21 ottobre prossimo quando, su citazione del pm Alessandro Sorrentino, dovrebbero essere sentiti un altro maresciallo dei carabinieri e lo stesso giornalista Paolo Borrometi.

Processo Ermes,confermate le condanne ai due postini di Matteo Messina Denaro

di AMDuemila
Stabilite solo lievi riduzioni di pena. Tra gli accusati vi era anche il capomafia Domenico Scimonelli

La Corte d’appello di Palermo ha confermato ieri, seppur con livedi riduzioni di pena, le condanne stabilite in primo grado dal Gup Walter Turturici, a carico di sei favoreggiatori del superlatitante Matteo Messina Denaro nell’ambito di una inchiesta del 2015, coordinata dalla Procura di Palermo, che fece luce sull’ultima rete di “postini” al servizio della primula rossa.
Tra gli imputati, accusati a vario titolo di mafia e favoreggiamento, anche il capomafia Domenico Scimonelli, boss di Partanna, che secondo i pm avrebbe anche contribuito a nascondere, tramite una serie di viaggi in Svizzera, i soldi accumulati da Messina Denaro.
A 14 anni e 4 mesi è stato condannato il capomafia di Salemi (Trapani) Michele Gucciardi e a 10 Pietro Giambalvo, uomo d’onore della famiglia di Santa Ninfa (Trapani). Rispettivamente 11 e 8 anni hanno avuto Vincenzo Giambalvo, altro presunto esponente del clan di Santa Ninfa, e il salemitano Michele Terranova. Per favoreggiamento alla mafia, 4 anni di carcere sono stati inflitti all’autotrasportatore Giovanni Loretta, di Mazara del Vallo. La riduzione di pena più rilevante è stata disposta per Michele Terranova, difeso dagli avvocati Mimmo La Blasca e Amalia Imbrociano, la cui condanna è stata ridotta di 4 anni. Il processo di primo grado riconobbe risarcimenti danno per le parti civili: Sicindustria e Associazione antiracket e antiusura Trapani, Comuni di Castelvetrano e Salemi, Associazione antiracket “La Verita’ Vive” di Marsala, Antiracket Alcamese e Centro studi “Pio La Torre”.
L’inchiesta ricostruì i vari passaggi dei pizzini, utilizzati dal boss di Castelvetrano per conversare con i suoi fedelissimi.
Gli investigatori filmarono e registrarono diversi incontri, tutti in aperta campagna o sotto pali eolici, filmando da lontano lo scambio dei fogli di carta. Tra le figure principali spiccava quella di Vito Gondola, detto Coffa, 77 anni, capomafia storico di Mazara del Vallo deceduto nel corso del processo, condannato in via definitiva per associazione mafiosa. Secondo la ricostruzione dell’accusa Matteo Messina Denaro si sarebbe rivolto a Gondola dopo l’arresto della sorella Patrizia e del nipote Francesco Guttadauro.

I sistemi criminali mondiali

di Davide de Bari

Credo, basandomi su fatti, che grandi nazioni mondiali usano la criminalità organizzata, tramite i servizi segreti, per i lavori sporchi”. E’ con queste parole che il direttore di ANTIMAFIADuemilaGiorgio Bongiovanni ha parlato, in un’intervista al programma argentino GPS di Canale América 24 condotto dal giornalista Rolando Graña, della realtà delle mafie e della loro infiltrazione. “Oggi il grande pericolo è che le mafie si stanno infiltrando nella comunicazione e nei giornali. Hanno comprato centri commerciali giganteschi, in particolare in Sicilia. La mafia è in borsa così come è all’interno di grandi club di calcio e in grandi banche internazionali. Dunque, questo può alterare le democrazie. Per questo ho il sospetto, basato su indagini giornalistiche giudiziarie, che la mafia è un braccio armato di grandi nazioni del mondo”. Continuando a spiegare cosa siano stati questi “lavori sporchi” svolti dalla mafia, il giornalista ha detto: “Nel sequestro di Aldo Moro, oltre ai terroristi, c’erano dei mafiosi. Stessa cosa con l’attentato a Borsellino: furono i mafiosi a premere il pulsante che fece detonare la bomba, ma c’erano i servizi segreti di mezzo. Abbiamo documenti che mostrano un carabiniere prendere la valigetta di Borsellino dove era contenuta la sua personale agenda rossa dove si annotava tutto. Questi è stato indagato ma poi venne assolto davanti al Gup di Caltanissetta”. Bongiovanni ha anche parlato dei mandanti esterni che ci potrebbero essere stati dietro la strage di via d’Amelio: “Si sta ancora indagando. Tutto quello che è stato scoperto è solo l’esempio a dimostrazione del fatto che i servizi segreti italiani sarebbero stati coinvolti nella strage. Esisterebbe un accordo in Italia che afferma che l’intelligence italiana dipende da quella americana della CIA. Quindi se in una delle stragi più grandi della storia italiana, la strage Borsellino, abbiamo la prova giudiziaria che avrebbero partecipato anche i servizi italiani, potrebbe stare a significare che anche gli americani c’erano di mezzo“. Proseguendo sempre sui rapporti tra mafia e Stato, il direttore ha detto: “In Italia c’è stato un patto tra lo Stato e la mafia, la cosiddetta trattativa. E’ stata scoperta da un grande magistrato come il dottor Nino Di Matteoinsieme ad altri magistrati come Vittorio TeresiFrancesco Del Bene e Roberto Tartaglia, è riuscito a portare alla luce l’accordo che ha permesso alla mafia di avere protezione di alcuni uomini dello Stato. La mafia ha avuto curiosamente, in quasi 200 anni, la protezione dello Stato, e per questo superò il limite convertendosi in uno Stato dentro lo Stato”. Bongiovanni si è poi chiesto il motivo per il quale le organizzazioni criminali, nonostante i propri rappresentanti malavitosi “cadano”, o a causa dell’autorità giudiziaria che li arresta, o causa delle violenze interne, queste “continuano ad esistere”. “La cosa più impressionante è la ricchezza di gente che quando ha iniziato la propria carriera in Cosa Nostra non aveva un soldo e poi è diventata immensamente ricca, ciò significa che qualcuno in Italia lo ha permesso. E questo qualcuno è stato una parte dello Stato italiano, codardo e corrotto. Per questo ora dobbiamo convivere con questo problema“. Parlando di ‘Ndrangheta, Bongiovanni ha poi spiegato trattarsi di “un’organizzazione costituita da vari livelli al cui vertice c’è un sistema chiamato ‘La Santa’. Un livello invisibile dove ci sono al suo interno mafiosi di alto rango, massoni, politici, religiosi, banchieri e personaggi dello Stato“. Il direttore ha poi spiegato che “prima i politici si facevano corrompere dalla ‘Ndrangheta“, ma adesso “fanno parte di essa“. Quindi ha citato gli esempi del senatore Caridi che è sotto processo per associazione mafiosa. O lo stesso Marcello Dell’Utri che ha ricevuto una condanna definitiva per associazione mafiosa. Quest’ultimo “aveva fatto patti con Cosa Nostra e ha fondato il partito Forza Italia insieme a Silvio Berlusconi”. “Tutto questo ha permesso ai mafiosi che alcuni politici collusi facessero delle leggi a loro favore. Leggi serie contro la mafia non sono mai state applicate con severità“. Secondo il giornalista “si arrestano i soldati della mafia o quelli di un rango un pò superiore, ma la zona invisibile non si tocca. Questo è il patto e questo è ciò che la mafia è riuscita a raggiungere in questo momento“.

Mafia e imprenditoria
Il Direttore di ANTIMAFIADuemila si è poi soffermato sul fertile terreno dell’imprenditoria dove la mafia, da sempre, affonda le proprie radici. “La criminalità organizzata cerca imprenditori di successo e quelli che stanno fallendo” ha affermato Bongiovanni che poi ha continuato: “Oggi la fortuna della criminalità organizzata è la crisi economica. L’unica organizzazione al mondo che ha liquidità è la mafia, ormai neanche le banche possono assicurare tale cosa. Quindi è molto probabile che le banche stesse hanno bisogno di denaro“. Per far comprendere meglio, il direttore ha fatto un esempio: “Un grande imprenditore italiano che vende la pasta non aveva soldi e stava fallendo. Per questo si è rivolto a un boss che gli ha dato cinquanta milioni di euro. Una cifra più grande di quello che gli aveva chiesto, ma il mafioso gli chiese in cambio di diventare socio in affari. Non esiste una banca che possa privarsi di una cifra così grande di denaro in così poco tempo per un prestito senza battere ciglio“.

La connesione con l’Argentina
Il rapporto tra mafia italiana e i narcos sudamericani? “La relazione è molto stretta. – ha spiegato Bongiovanni – La mafia italiana ha il monopolio del traffico della cocaina nell’emisfero occidentale e si sta espandendo in quello orientale. L’80% del traffico di droga lo possiede la mafia italiana“. Per il giornalista il rapporto tra la mafia e i narcos risale agli anni ’60, quando per i narcotrafficanti di droga Cosa Nostra era affidabile. “Pablo Escobar – ha spiegato – riceveva ‘lezioni’ dalla mafia, la imitava ed ammirava Totò Riina. L’affidabilità della mafia italiana è tale che se questa chiede un quantitativo di droga ai produttori sudamericani, questi la consegnano in accredito, ovvero la inviano senza essere retribuiti subito, ma solamente quando la mafia italiana aveva, precedentemente, promesso di pagarli“. Riguardo a un’ipotesi secondo cui i grandi traffici di cocaina venissero combattuti dallo Stato argentino, il giornalista ha detto: “Sono convinto che la mafia perderebbe e di conseguenza perderebbe un sacco di soldi. I capi della mafia argentina, sfortunatamente sono italiani non argentini, quindi se il governo Macri volesse sconfiggere la mafia deve prima sconfiggere la ‘Ndrangheta. Se questo dovesse succedere vincerebbe lo Stato, magari con numerose perdite ma vincerebbe. Il problema è che alcuni uomini di Stato non vogliono averne a che fare con questa ipotesi di contrasto alla criminalità organizzata perché è più facile prendere ingenti quantità di denaro che possono assicurare un futuro che mettersi contro di loro. Siamo deboli, peccatori e corruttori. E’ difficile rinunciare a un’offerta che un’organizzazione grande come la ‘Ndrangheta può offrire a un Presidente, un ministro piuttosto che a un funzionario“.

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“La Bestia”, il libro di Carlo Palermo presentato a Pordenone

Si è tenuta ieri a Stevenà di Caneva, in provincia di Pordenone, l’incontro “Poteri massonici e mafia in Italia” con l’ex magistrato e sopravvissuto alla strage di Pizzolungo, Carlo Palermo, che ha presentato la sua ultima opera: “La Bestia”, edito da Sperling & Kupfer. A condurre i lavori è stato il caporedattore di ANTIMAFIADuemilaAaron Pettinari, che ha fatto un lungo excursus dei rapporti tra massoneria e mafia a cominciare dalle indagini che riguardano proprio la loggia massonica P2, di Licio Gelli. Il giornalista ha ricordato come appena due anni fa sia stata approvata dalla Commissione nazionale antimafia, allora presieduta dall’onorevole Rosy Bindi, una relazione su “Mafia e massoneria” rilevando l’esistenza di infiltrazioni mafiose nelle associazioni a carattere massonico e a quelle “coperte” che si trovano all’ombra di quelle ufficiali. Da questa si evince come, oggi, sarebbero 193 gli affiliati alle logge massoniche siciliane e calabresi coinvolti in inchieste di mafia, in alcuni casi condannati ex art. 416bis del Codice Penale, in altri casi condannati per gravi delitti o indagati per associazione mafiosa. Pettinari ha poi riportato alcune testimonianze recenti in processi come ‘Ndrangheta stragista, Breakfast o Gotha, che spesso non vengono considerati dalla grande informazione, in cui si è fatto riferimento proprio a questo “intreccio di mondi”. “C’è un importante collaboratore di giustizia, Cosimo Viriglio– ha detto il giornalista – che ha parlato di come non è la mafia ad essersi infiltrata nella massoneria, ma il contrario”.
Contro certi poteri, in cui convergevano affari ed interessi nazionali ed internazionali, l’ex magistratoCarlo Palermo si è scontrato in la bestiaquelle indagini che aveva condotto sul traffico internazionale di armi e droga, svolte a Trento per poi arrivare fino a Trapani, finché il 2 aprile 1985 non subì un attentato, la strage di Pizzolungo, dove, purtroppo, morirono Barbara Rizzo, 30 anni, ed i suoi figli, i gemellini Salvatore e Giuseppe Asta, di appena 6 anni.
Palermo ha così raccontato come, da giovane giudice istruttore, è andato in contatto con certe realtà e si è confrontato anche con colleghi come Giovanni FalconeGiangiacomo Ciaccio MontaltoRocco Chinnici. “Mi sono trovato ad affrontare quella realtà molto giovane tra la fine dei anni ’79 e inizio ’80. – ha raccontato non nascondendo un velo di commozione – E’ veramente difficile raccontare questa storia perché capita di ascoltare delle narrazioni dei nomi di personaggi che subito evocano in tutti le immagini di morte. E’ complicato raccontare perché una cosa è parlare di fatti scritti suoi libri, ma un’altra è raccontarli per aver vissuto con loro. Ed io ogni volta sento le loro voci e vedo i loro volti perché loro non ci sono più”.
Palermo ha poi parlato dell’inchiesta di cui si è occupato a Trento. “Iniziava tutto dal medio oriente, dove avveniva la raccolta di eroina che poi veniva spedita in un itinerario a Trento, in dei depositi, per poi essere spostata in Sicilia. Lì c’erano dei laboratori in prossimità di Palermo, veniva raffinata e poi sparsa per tutti i mercati da Milano a Marsiglia e negli Usa – ha spiegato Palermo – Poi ho scoperto che c’era un inverso traffico di armi che servivano per le varie guerre”. L’ex sostituto procuratore di Trapani ha ricordato quando si incontrò con un altro magistrato che stava combattendo il traffico di droga a Trapani, Ciaccio Montalto, ucciso da Cosa nostra il 25 gennaio 1983. “Ci occupavamo di quelli stessi traffici e così che conobbi Montalto, perché a Trento avevo sequestrato una cartolina con scritto Leonardo Crimi, che era uno che frequentava Trapani ma anche il Veneto – ha detto – La cartolina proveniva da Trapani così iniziarono i colloqui conoscitivi, ma poi conobbi Falcone per i laboratori di raffineria a Palermo. Partecipai poi a un convegno a Sorrento dove c’era Montalto, Falcone, Chinnici, Borsellino ed ebbe il piacere di conoscerli. Ma poi un mese dopo uccisero Ciaccio, sei mesi dopo la strage di Via Pipitone, poi Pizzolungo e nel ’92 le stragi”.

Sicilia: arrestati Carabinieri che favorivano il boss Matteo Messina Denaro

Avrebbero passato informazioni riservate sulle indagini sul boss Matteo Messina Denaro ad una persona di Trapani vicina a Cosa Nostra. Per questo motivo sono stati arrestati il tenente colonnello Marco Zappalà, carabiniere in servizio alla Direzione Investigativa Antimafia di Caltanissetta, e Giuseppe Barcellona, appuntato in forza alla compagnia di Castelvetrano.   Per loro l’accusa è di favoreggiamento e accesso abusivo al sistema informatico. Per la Procura di Palermo farebbero parte di una catena di talpe scoperta dai Carabinieri dei Ros. Gli arresti potrebbero dare una svolta alle indagini sulla caccia al super latitante di Cosa nostra.   In carcere anche l’ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino. L’uomo era stato già condannato per droga e poi aveva iniziato a  collaborare con i servizi. – See more at: http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Mafia-Arrestati-Carabinieri-rivelato-informazioni-sulle-inchieste-sul-boss-Messina-Denaro-6282f319-2884-452e-868f-e0caeefd4de0.html

I Contini, il clan più potente di Napoli

Un clan che non ha mai avuto scissioni interne, che tra le sue fila non ha mai annoverato affiliati diventati poi collaboratori di giustizia. Compatto dall’inizio, senza colpi di testa e tentativi di scalate al vertice, senza fratture che esponessero il fianco agli altri gruppi. E con contatti ben saldi con gli altri gruppi criminali. Nell’universo disgregato della criminalità organizzata napoletana, oggi il clan più solido, granitico e ancora ferocemente attivo, è quello fondato da Eduardo Contini. Il gruppo avrebbe un ruolo anche nelle frizioni del centro storico: appoggerebbe i Sibillo, a cui i Contini sono legati anche da parentele tra gli affiliati, contro i rivali di sempre del clan Mazzarella.

Edoardo ‘o Romano è detenuto dal 2007, quando fu arrestato a Casavatore. Era latitante da 7 anni e inserito tra i 30 più pericolosi d’Italia. Nell’appartamento dove viveva, preso in affitto da una vedova, i poliziotti trovarono parecchi pizzini, che usava per gestire il suo impero. Perché Contini non usava il telefono, non usciva praticamente mai di casa, buttava i vestiti piuttosto che mandarli in tintoria.

Contini (Napoli, 6 luglio 1955) intraprende la carriera criminale agli inizi degli anni ’80, abbandonando la vita da imprenditore. Pochi anni dopo, già inquadrato nella Nuova Famiglia, quella nata per contrapporsi alla Nco di Raffaele Cutolo, è alla guida di un gruppo criminale con base a San Giovanniello, nel quartiere San Carlo Arena. È la zona dell’Arenaccia, una delle più calde per la densità abitativa e per la vicinanza con le aree su cui insistono gli altri clan. A metà degli anni ’80 è già tra i criminali più influenti di Napoli: dopo un incontro con i narcos colombiani, a cui prendono parte anche i mafiosi siciliani, si aggiudica il mercato dell’Europa dell’Est per la cocaina sudamericana.

In quel periodo Contini è tra i fondatori dell’Alleanza di Secondigliano (insieme a Francesco Mallardo e a Gennaro Licciardi). E non perde lo spirito imprenditoriale: diversifica e investe. Il suo clan mette le mani su usura ed estorsioni, traffico di droga, gioco d’azzardo e contraffazione, e investe in case, società, attività imprenditoriali. Nel 2017 la Guardia di Finanza, su disposizione della Dda, confisca al suo gruppo un tesoro di 320 milioni di euro già finito sotto sequestro preventivo due anni prima: ci sono distributori di benzina tra Campania e Molise, bar tra Napoli e Avellino, tabaccherie, aziende per la torrefazione di caffè, gioiellerie e una trentina di immobili tra cui una villa a Ischia. Ed era probabilmente soltanto la punta dell’iceberg.

Oggi il suo clan si estende su Poggioreale, il Vasto e San Carlo Arena, con ramificazioni a Roma e nel basso Lazio, in Toscana, Emilia Romagna e Lombardia e con tentacoli che arrivano anche a Barcellona e ad Amsterdam. Il core business rimane però a Napoli, a San Giovanniello.

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Tutti i clan della Camorra nella Provincia di Napoli

Nella camorra napoletana comandano i giovani. È ciò che emerge dalla semestrale relazione della Direzione investigativa antimafia sulla criminalità organizzata su tutto il territorio nazionale. Nell’analisi del 2018 attraverso le indagini svolte in città e in provincia, emerge con prepotenza che la nuova scena della camorra partenopea è controllata dalle nuove generazioni subentrate ai vecchi capi camorra finiti nelle maglie della giustizia grazie anche all’utilizzo dei pentiti.

Il centro storico di Napoli è diventato il terreno di lotte tra clan che provano a ristabilire gli equilibri di potere e il controllo delle attività criminali come il traffico di stupefacenti e le estorsioni. Questo spiegherebbe i diversi attentati e azioni dimostrative che hanno caratterizzato tutto l’anno scorso. Una situazione di instabilità e frammentazione sottolineata già nelle due relazioni dello scorso anno. Le azioni dei nuovi gruppi criminali sono caratterizzate da una crescente ferocia per provare a dimostrare la propria forza sul territorio che cercano di accaparrarsi.

In provincia la situazione è diversa. A farla da padrone sono sempre i gruppi storici nonostante siano stati falcidiati dalle indagini dell’Antimafia. I legami familiari e verticistici che caratterizzano le organizzazioni criminali della provincia permettono alle stesse di rimanere saldamente al controllo del territorio e di riuscire a mimetizzare le attività illecite nel tessuto sociale.

Tutti i clan, le famiglie e i gruppi di Napoli 

Area Centrale – quartieri Avvocata, San Lorenzo/Vicaria, Vasto Arenaccia, San Carlo Arena/Stella, Mercato/Pendino, Poggioreale, Montecalvario, Chiaia/San Ferdinando/ Posillipo

MAZZARELLA, GIULIANO-SIBILLO-AMIRANTE-BRUNETTI, RINALDI, CONTINI, VICORITO-DE MARTINO, RICCI-SALTALAMACCHIA, AMIRANTE, FERRAIUOLO, CALDARELLI, LICCIARDI, MALLARDO, SARNO, MARIANO, FARELLI, ELIA, BRUNETTI, MASIELLO – MAZZANTI, LEPRE, VASTARELLA, SEQUINO, SAVARESE, GENIDONI-SPINA-ESPOSITO, MAURO, PICCIRILLO/FRIZZIERO, CIRELLA, STRAZZULLO, INNOCENTI, CALONE.

Area Orientale – quartieri Ponticelli, S. Giovanni a Teduccio, Barra

MAZZARELLA, RINALDI, DE LUCA BOSSA-MINICHINI, SCHISA, APREA, D’AMICO, FORMICOLA, CUCCARO, CELESTE, GUARINO, ALBERTO

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Area Settentrionale – quartieri Vomero ed Arenella, Secondigliano, Scampia, San Pietro a Patierno, Miano, Piscinola, Chiaiano.

CIMMINO, SIMEOLI, POLVERINO, ORLANDO, DI LAURO, VANELLA GRASSI, PETRICCIONE-MENNETTA-MAGNETTI-ACCURSO, AMATO-PAGANO, MARINO, MARFELLA-PESCE, GRIMALDI, LICCIARDI, CESARANO, LEONARDI, ABETE, NOTTURNO, ABBINANTE, LO RUSSO, PERFETTO, NAPPELLO, BALZANO.

Area Occidentale – quartieri Fuorigrotta, Bagnoli, Pianura, Soccavo, Rione Traiano

GIANNELLI, ESPOSITO, SORPRENDENTE-ROSSI, D’AUSILIO, VITALE-TRONCONE, ZAZO, MELE, VIGILIA, GRIMALDI, SORIANIELLO, PUCCINELLI-PETRONE, CUTOLO.

Schermata 2019-02-13 alle 18.55.11-2Area provinciale

Provincia di Napoli – ​Area occidentale

Pozzuoli e Quarto: BENEDUCE-LONGOBARDI

Bacoli e Monte di Procida: PARIANTE

Provincia di Napoli – area settentrionale

Giugliano in Campania: MALLARDO, DI BIASE

Qualiano, Villaricca: MALLARDO

Villaricca: FERRARA, CACCIAPUOTI

Afragola, Casavatore, Crispano, Caivano, Casoria, Cardito, Carditello, Frattamaggiore, Frattaminore: MOCCIA

Crispano: CENNAMO

Caivano (Parco Verde): CICCARELLI

Melito di Napoli, Mugnano ed Arzano: AMATO PAGANO

S. Antimo: VERDE, PUCA, PETITO, RANUCCI, D’AGOSTINO, SILVESTRE,

Casandrino: MARRAZZO

Marano di Napoli, Quarto, Qualiano e Calvizzano: NUVOLETTA, POLVERINO, ORLANDO, c.d. dei Carrisi

Acerra: DI BUONO, AVVENTURATO

Casalnuovo e Volla: REA-VENERUSO, PISCOPO-GALLUCCI

Provincia di Napoli – area meridionale

San Giorgio a Cremano: TROIA, LUONGO

Ercolano: ASCIONE- PAPALE, BIRRA- IACOMINO,

Portici: VOLLARO

San Sebastiano al Vesuvio: PISCOPO,

Torre del Greco: FALANGA

Torre Annunziata:  GIONTA, GALLO, VENDITTO, TAMARISCO e CHIERCHIA. TERZO SISTEMA

Boscoreale: ANNUNZIATA-AQUINO, VISCIANO, PESACANE e GALLO-LIMELLI-VANGONE

Castellammare di Stabia: D’ALESSANDRO, IMPARATO

Pompei: CESARANO

Gragnano e Pimonte: DI MARTINO

Provincia di Napoli – area orientale

Nola: RUSSO

San Vitaliano, Scisciano, Cicciano, Roccarainola: SANGERMANO

San Giuseppe Vesuviano: FABBROCINO, BATTI

Poggiomarino e Striano: GIUGLIANO

Somma Vesuviana e S.Anastasia: D’AVINO e ANASTASIO

Castello di Cisterna e Marigliano: CASTALDO-CAPASSO

Castello di Cisterna e Brusciano: REGA

Cercola e Pomigliano d’Arco: gruppi napoletani

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