Libia nel caos. Gheddafi e l’attuale rischio di una Guerra Civile. Intervista alla Dott.ssa Valentina Spata

Donna siciliana, esperta in storia e politiche dell’Africa e Analista politica del Medioriente. Operatrice Legale a servizio dei Richiedenti Asilo Politico. La Dott.ssa Valentina Spata, che sta per conseguire anche il Diploma di Affari Esteri, specializzata in Diritto della Comunità europea, Governance Europea, Diritto dell’Immigrazione, ci lascia una interessante intervista sulla situazione della Libia che potrebbe sfociare in un’altra Guerra Civile. 

Dott.ssa, lei dice spesso che per capire le cause e le conseguenze del caos in Libia bisogna conoscere la storia di questo Paese arabo ed in particolare il lungo periodo in cui Gheddafi è stato al potere. Ce ne parli. 

Certo, per comprendere la crisi libica bisogna conoscere il periodo storico che riguarda appunto il potere di Gheddafi.
La crisi libica di fatto è stata innescata dalla caduta di Mu’ammar Gheddafi. La fine del regime e la morte del dittatore hanno aperto un vaso di Pandora alla cui base si situa la debole identità nazionale libica. Possiamo condannare Gheddafi per tanti motivi ma quest’uomo aveva la capacità di tenere a bada le numerose milizie e tribù.
Gheddafi ha governato per quarantadue anni basando tutto su legami assolutamente informali e non formali. In Libia non esistevano istituzioni forti, proprio perché non si volevano creare poli di potere contrapposti al regime. La fine di esso ha decretato il crollo del sistema. Adesso non ci sono istituzioni, non c’è polizia, non ci sono punti di riferimento. Sono quindi emersi i localismi, i tribalismi e le divisioni regionali. Il risultato è stata una situazione di totale anarchia, le milizie si sono armate e non hanno voluto deporre le armi, si sono creati vari gruppi in lotta gli uni contro gli altri. Oggi i disordini si trasformano in una crisi di portata enorme che può sfociare in una lunga guerra civile.

Chi era Mu’ammar Gheddafi? La sua Rivoluzione cosa rappresentò per la Libia, per l’Africa e l’intero mondo occidentale? 

Gheddafi, che aveva appena 27 anni, era il capitano dell’esercito che con un gruppo di militari organizzò un colpo di Stato per rovesciare il potere del re Idris I, il 26 agosto del 1969. Cinque giorni dopo, il 1 settembre,  proclamò la nascita della Repubblica libica, guidata da un Consiglio del Comando della Rivoluzione composto da 12 militari. In questo giorno Mu’ammar Gheddafi instaurò la Jamaria libica, un governo sui generis, che letteralmente significa Stato governato dalle masse, nel quale l’islam svolgeva un ruolo di primo piano. Gheddafi, che nel frattempo era stato nominato colonnello, si mette a capo del Consiglio instaurando una dittatura feroce.

Il primo obbiettivo di Gheddafi, dopo il colpo di Stato del 1969, era quello di assicurarsi il sostegno delle kabile, nome con il quale si indicano in Libia le tribù di origine beduina. Essendo lui stesso beduino, riuscì a muoversi in questo contesto con particolare destrezza: conferì cariche allo scopo di assicurarsi il sostegno dei capi kabila e delle loro tribù. Provenendo da una kabila del Fezzan centrale, venne facile a Gheddafi inserirsi anche nel contesto di storica rivalità esistente tra le popolazioni della Cirenaica e quelle della Tripolitania, religiose e ribelli le prime, più laiche e flessibili le seconde. Non è un caso, quindi, che le kabile della Cirenaica diventarono subito oggetto di discriminazione e persecuzione perché legate alla confraternita della Senussyya (mistica musulmana) e alla precedente monarchia e quindi potenzialmente ostili al regime. La Cirenaica, definita dal Colonnello “una regione della Libia un po’ viziata”, veniva infatti esclusa da investimenti o benefici finanziari, malgrado si trovi proprio su questo territorio la maggior parte dei giacimenti di petrolio, oltre ad essere teatro di dure repressioni da parte dello stesso Gheddafi.

Nonostante le numerose Kabile libiche, la spiccata abilità relazionale di Gheddafi fa sì che ognuna di queste entità ottenga rappresentanza a livello centrale. Come già spiegato, le altre entità politico-tribali che non sostengono il dittatore sono nei fatti escluse da ogni concessione di potere e denaro.

Ecco, per ottenere stabilità in Libia bisogna partire da qui. Dalla capacità di saper gestire le milizie e le tribù facendole restare al loro posto senza denigrarle. Gheddafi ci riuscì. Coloro che vennero dopo di lui, compreso lo sconosciuto Sarraj imposto dalla Comunità Internazionale, non ne sono mai stati capaci, indi per cui ci troviamo una situazione di destabilità che ha provocato numerose crisi libiche.

Un altro strumento ampiamente utilizzato dal colonnello per controllare il Paese fu la repressione. Gheddafi non concepiva alcuna forma di opposizione, anche se pacifica, e per rendere efficace questo sistema di repressione utilizzava i Servizi di sicurezza, mentre all’Intelligence militare delegava il controllo delle Forze Armate. Gheddafi decide comunque di limitare l’autonomia e il potere di queste Forze, conscio del fatto che lo stesso colpo di Stato che lo ha visto come protagonista è stato reso possibile proprio dalla capacità operativa e dall’ampio margine di azione di queste ultime.

Questa fu la Rivoluzione del colonnello, diversa da quella che aveva scritto nel suo libro Verde. Di certo la repressione non è condivisibile ma a questa si poteva sicuramente anteporre il dialogo.

Ci parli del Libro Verde di Gheddafi. Per quale motivo lei lo definisce “un’opera eterna, sempre attuale”? 

Vi sono alcune opere destinate ad essere imperiture e, forse proprio in virtù della loro eterna attualità, capaci di inquadrare limpidamente complesse dinamiche senza concedersi a velleità. È il caso del Libro Verde di Mu’ammar El Gheddafi, pubblicato nel 1975. Gheddafi, al potere da sei anni, sul modello del Libro Rosso di Mao scrive il Libro Verde, ovvero “la Terza Teoria Universale”, con l’intento di offrire una “terza via”, che rigetti la dicotomia capitalismo-comunismo, e che si sublimi nella teoria del socialismo arabo, sospinto da un solido retroterra panarabista. La Repubblica da lui pensata non sarà né ispirata al capitalismo, né al socialismo. Sarà dunque una via islamica per lui necessaria per l’edificazione della società che vede la redistribuzione della ricchezza alla ricerca dell’eguaglianza sociale. Con la Rivoluzione, che porta alla nascita della Jamaria, Gheddafi abroga la Costituzione che fino ad oggi non esiste in Libia: “il corano è la nostra Costituzione” scriverà Gheddafi nel suo libro. L’islam rappresenta la religione dello Stato, nonché il modello cui ispirarsi per l’edificazione della società.

Questo tipo di rivoluzione basta sul potere delle masse e sull’eguaglianza sociale, come ben sappiamo, non è mai avvenuta ma i principi sulle quali si ispirava sono stati adottati in quella rivoluzione che ha islamizzato e arabizzato il popolo libico in tutte le sue forme e che ha segnato, per lungo tempo, le battaglie tra Gheddafi e la Comunità Internazionale.

I tre punti fondamentali su cui Gheddafi ha condotto la sua rivoluzione sono scritti nel libro verde.

La prima parte del libro è una riflessione politica imperniata su un’aspra critica al moderno Occidente democratico e ai suoi strumenti, che usurpano e monopolizzano il potere. Il concetto di democrazia viene concepito come sintomo di sfruttamento capitalista ed è sostituito dal concetto di rappresentanza diretta. L’unico mezzo dunque per mettere in atto la democrazia diretta sono i congressi popolari e i comitati popolari, proprio perché “la democrazia è il controllo del popolo su sé stesso”. La Shura sarà il Consiglio Consultivo che rappresenta la forma di espressione diretta pensata da Gheddafi.

In termini giuridici, oltre al ruolo centrale dell’islam in senso teorico, si assiste ad una reislamizzazione del sistema giuridico attraverso il reinserimento delle sanzioni coraniche in materia penale a partire dagli anni ’70 (lapidazione in caso di adulterio, amputazione di un arto in caso di furto, fustigazione in caso di utilizzo di bevande alcoliche). Queste sanzioni, a dire il vero, non sono mai state applicate fino ad oggi. Pertanto il sistema che intendeva Gheddafi mette al centro l’Islam ma anche l’arabizzazione. Il colonnello è un forte sostenitore dell’arabicità del popolo libico, infatti ha bandito l’alfabeto latino e ristrutturato il calendario per distinguersi e sottolineare un nazionalismo che si innesca in una componente islamica molto forte tinta da aspetti socialisteggianti.

La seconda parte analizza l’aspetto economico. C’è una profonda analisi sul salariato, considerato una schiavitù in tutte le sue forme. La rivoluzione, infatti, si basa sul principio secondo il quale si è soci e no salariati. La soluzione prospettata è la totale abolizione del salario e il ritorno alle norme naturali, presupposto del socialismo naturale, fondato sul principio per cui ad ogni elemento che ha partecipato alla produzione spetta un’equa distribuzione del prodotto: il concetto di proprietà, ad esempio, prevede che l’abitazione è di chi la abita.

La terza parte si incentra, infine, sulla “base sociale” della Terza Teoria Universale. Il motore della storia umana è il legame associativo che si lega con il legame nazionale: alla base di ogni dinamica storica c’è la coscienza nazionale, base della sopravvivenza e della coesione sociale. L’ultimo segmento vira sul significato della famiglia: “La famiglia, riparo naturale dell’individuo, è più importante dello Stato. Il Colonnello si concentra sulla figura della donna, che il mondo moderno sta trasformando, pretendendo un ruolo indecorosamente anti-femminile.

Il colonnello Gheddafi è stato il nemico numero uno dell’Occidente. Per molti anni ha anche sostenuto i terroristi. Ma è stato anche un grande alleato dell’Italia. Quali contraddizioni, se ce ne sono, e come i rapporti con il colonnello hanno influenzato la politica internazionale?

L’irrigidimento repressivo sul piano interno si accompagna alla radicalizzazione delle scelte politiche internazionali, principalmente in funzione anti-occidentale, elementi che portano alla rottura dei rapporti diplomatici tra Libia ed Occidente. Queste tensioni culminano, nel 1986, nel bombardamento della città di Tripoli ad opera degli Stati Uniti (cui lo stesso Gheddafi sfugge miracolosamente) e nell’embargo economico imposto dall’ONU nel 1988. I rapporti diplomatici con i paesi occidentali vengono ripristinati all’inizio del 2000, compresi quelli con l’Italia.

Nello specifico, per comprendere bene la natura di questi rapporti, ricordiamo che in quel periodo, Gheddafi arrivò a sostenere gruppi terroristici come l’IRA irlandese (Irish Republican Army), comunemente conosciuta come Esercito Repubblicano Irlandese ed il Settembre Nero (organizzazione terroristica nota per il massacro di Monaco, ovvero del rapimento e dell’uccisione di 11 atleti israeliani e dell’omicidio di un poliziotto tedesco al villaggio olimpico di Monaco di Baviera) e fu accusato di aver organizzato degli attentati in Sicilia, Scozia e Francia.

Il suo regime era divenuto il nemico numero uno degli Stati Uniti d’America subendo anche l’isolamento dalla NATO. Il 15 aprile del 1986, per volere del Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, un feroce bombardamento chiamato come Operazione El Dorado, colpì il compound di Gheddafi che fu raso al suolo. Il bombardamento lasciò indenne il colonnello che annuncia, però, la morte della figlia adottiva Hanna che fu avvistata, poco tempo dopo, con lo stesso Gheddafi. Il colonnello era stato avvertito dell’attacco alla sua persona dall’allora Presidente del Consiglio Bettino Craxi, indi per cui non si è fatto trovare impreparato. Successivamente la sua risposta fu quella del lancio di due missili SS-1 Scud a Lampedusa. I missili fortunatamente non provocarono danno poiché caddero a 2 km dalle coste siciliane. Secondo alcune ricostruzioni, sembra che l’offensiva di Lampedusa fu un episodio fatto nascere da Gheddafi per coprire “l’amico italiano” che gli aveva salvato la vita agli occhi degli americani. Da qui si può iniziare a comprendere i rapporti “amici” tra l’Italia e la Libia, sempre velati da misteri poi svelate da fonti autorevoli.

Ci furono altri attentati attribuiti a Gheddafi. Il 21 dicembre del 1988 un aereo americano civile della compagnia Pan Am 103 esplode in volo e si schianta nella cittadina scozzese di Lockerbie provocando la morte di 270 persone. Nove mesi dopo, Martedì 19 settembre 1989 il volo di linea 772 della società aerea francese Union de Transports Aériens (UTA) partì da Brazzaville, capitale della Repubblica del Congo, diretto all’aeroporto parigino di Roissy. Prima della partenza fu imbarcata tra i bagagli, nella stiva anteriore del McDonnell Douglas DC-10, una valigia Samsonite di color grigio scuro. Il volo arrivò a N’Djamena, per uno scalo di un’ora regolarmente previsto nel piano di volo, e ripartì dalla capitale del Ciad alle 12.13. Durante la sosta scesero nove passeggeri e ne salirono 79. Tutto si svolse regolarmente.

Quarantasei minuti dopo il decollo da N’Djamena, mentre l’aereo sorvolava il deserto nigerino, esplose una bomba all’interno del vano bagagli anteriore. Morirono tutte le 170 persone a bordo dell’aereo, che viaggiava a oltre diecimila metri di altezza: 156 passeggeri e quattordici membri dell’equipaggio. I resti dell’aereo furono ritrovati la mattina successiva, sparsi per un’ampia area del deserto sabbioso insieme ai corpi delle vittime.

Dopo due anni, le indagini della polizia francese e statunitense, accusarono i servizi segreti libici degli attentati.

Il primo ventennio di potere, Gheddafi era un nemico pericoloso della Comunità Internazionale proprio per i suoi rapporti con i terroristi. L’Italia ha sempre avuto atteggiamenti ambigui per il semplice fatto che la Libia si trova a poche miglia dalle coste siciliane e per gli interessi che il nostro Paese gode in questa parte del territorio del Nord Africa.

Detto ciò, il secondo ventennio del potere di Gheddafi è stato caratterizzato da un atteggiamento differente, più vicino alle potenze occidentali ed ha segnato la fine di un isolamento che è durato venti cinque anni.

Nel 1990 Gheddafi condanna fortemente l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq e successivamente sostiene le trattative di pace tra Etiopia ed Eritrea dopo vent’anni di guerra. Quando Nelson Mandela fece appello alla Comunità Internazionale, a fronte della disponibilità di Gheddafi di consegnare i responsabili della strage di Lockerbie, l’Onu decise di ritirare l’embargo alla Libia.

Nel 1999 il colonnello si oppose ad Al-Qaida e nel 2003 iniziò a collaborare con le agenzie internazionali per il controllo del suo programma di mezzi di distruzione di massa. Il 15 maggio del 2006 gli Stati Uniti, dopo venti cinque anni, hanno riallacciato i rapporti con la Libia che si è pian piano allontanata dall’integralismo islamico. Grazie a questo radicale cambiamento di Gheddafi, l’allora Presidente americano, George Williams Bush decise di togliere la Libia dalla lista degli “Stati Canaglia” portando un equilibrio ed un ripristino dei rapporti diplomatici tra Libia e Stati Uniti.

Il problema è che quando parliamo di Gheddafi, ci riferiamo ad un dittatore instabile che un giorno è leale ed i giorni successivi diventa un nemico. Infatti, a partire dal 2008 le relazioni della Libia con i paesi europei hanno conosciuto una nuova tensione.

Infatti nel 2009, nell’anno in cui la Presidenza dell’Assemblea tocca alla Libia, quindi proprio a Gheddafi, il colonnello ne approfitta ed inscena un discorso accusatorio nei confronti dell’Onu. Da qui, inizia la fine di Gheddafi?

Il discorso di Gheddafi all’Onu, durato un’ora e mezzo, ha sicuramente destato preoccupazione ma la sua inaffidabilità era ben nota alla Comunità Internazionale, pertanto non una novità.

Il monologo, che attacca pesantemente l’Onu, nella prima parte è volto a difendere i talebani e apprezzare le mosse di Obama: “se i talebani vogliono fare uno Stato religioso come il Vaticano va bene. Il Vaticano costituisce un pericolo per noi? No. E se i talebani vogliono creare un emirato islamico sono nemici?”. E mentre Obama lascia la sala, il colonnello lo elogia: “è un figlio dell’Africa e un barlume di luce nel buio. Saremmo contenti se restasse presidente per sempre, ma siccome questo non può succedere, nessuno può garantire per l’America”. Pretende, altresì, una riforma radicale del Consiglio di Sicurezza definito dal rais “il consiglio del terrore” con un seggio permanente all’Unione Africana e l’eliminazione del veto Gheddafi critica l’Onu anche per l’incapacità di rispondere al suo compito fondamentale di prevenire le guerre.

Gheddafi parla anche dell’Italia, incassando l’applauso del Ministro degli Esteri Frattini, citando l’accordo raggiunto nei mesi scorsi, con il pagamento di danni per le sofferenze imposte ai libici sotto il fascismo: “tutte le potenze coloniali dovrebbero comportarsi allo stesso modo”. Anche questo passaggio, sull’Italia, è importante per capire meglio i rapporti tra il nostro paese e la Libia di Gheddafi.

Appunto, com’erano e come sono i rapporti dell’Italia con la Libia di Gheddafi e con quella attuale? 

I rapporti tra Italia e Libia vanno contestualizzati con il periodo storico. Provo a fare una sintesi, anche se è difficile.

Le relazioni tra la Libia e l’Italia sono state particolarmente difficoltose nei primi venti anni della Repubblica Araba di Mu’ammar Gheddafi soprattutto a causa di “contenziosi” del passato. La richiesta libica di risarcimento per danni coloniali e di guerra e i beni confiscati alle imprese e ai privati italiani nel 1970 rappresentano i due nodi principali dell’instabilità dei rapporti italo-libici.

Gheddafi voleva un risarcimento di danni causati dagli italiani nel corso della colonizzazione del periodo di guerra combattuto in suolo libico. Richiesta impraticabile, considerato che in tutta l’Africa, durante il colonialismo e la seconda guerra mondiale, ci sono stati conflitti e nessuno dei Paesi europei ha risarcito i propri “colonizzati”. Di contro, c’era la questione dei beni confiscati agli italiani che vivevano in Libia e che nel 1970 furono espulsi da Gheddafi. Infatti dopo l’avvento della rivoluzione libica, furono circa ventimila gli italiani, residenti in Libia, che subirono la confisca di tutti i loro beni in netta violazione del trattato italo-libico del 1956, stipulato sulla base della Risoluzione ONU del 1950 che sanciva il rispetto dei diritti e degli interessi delle minoranze residenti in Libia.

Il valore dei beni confiscati, calcolato dal Governo italiano, ammonta a circa 200 milioni di lire al solo valore immobiliare. Se aggiungiamo i depositi bancari e le varie attività imprenditoriali ed artigianali, il valore supera i 400 milioni di Lire che tradotti in euro si aggirano a circa 3 miliardi.

La confisca dei beni degli italiani è stata giustificata da Gheddafi come una quota di acconto rispetto al saldo preteso. Il Governo italiano da parte sua, per diminuire le pretese di Gheddafi, non ha mai chiesto né un risarcimento per il mancato rispetto del trattato italo-libico, né ha mai utilizzato nelle trattative il valore dei bene restituiti al popolo libico.

Le relazioni bilaterali tra il nostro Paese e la Libia sono migliorati a partire dal Comunicato congiunto Dini-Mountasser del 1998, fino alla stipula del Trattato di amicizia e cooperazione Bengasi nel 30 agosto del 2008.

Il primo punto di svolta si ebbe appunto il 4 luglio del 1998, quando a Roma fu firmato il Comunicato congiunto tra Libia e Italia, documento che prevedeva una serie di azioni dirette da parte del Governo italiano volte allo sminamento del suolo libico e alla realizzazione di progetti economici a cura di soggetti pubblici e privati italiani.

L’importanza della Libia per l’Italia si desume però dal trattato di Bengasi, risultato di un difficile e laborioso negoziato firmato dal Primo Ministro Silvio Berlusconi e da Gheddafi. Il trattato contiene al suo interno alcuni riferimenti strategici dell’Italia in Libia. Da una parte esso dava soddisfazione alla Libia e alle sue richieste riguardanti il periodo coloniale, stabilendo che il Governo italiano si impegnava a realizzare progetti infrastrutturali per un valore di 5 miliardi di dollari nei successivi 20 anni. Dall’altro lato l’accordo prevedeva collaborazione particolare per quanto riguarda il settore energetico, la lotta al terrorismo e la lotta all’immigrazione irregolare.

La Libia di Gheddafi, pertanto, diventa per l’Italia un alleato sulla sponda nordafricana e un fornitore di energia (gas e petrolio) fino alla guerra civile libica.

Rispetto alla situazione odierna, ci tengo a precisare che se pensiamo alla situazione libica come un contesto isolato ci sbagliamo di grosso, essa va inserita all’interno del quadro geopolitico mediterraneo ed è strettamente collegata alla situazione mediorientale.

I rapporti con l’Italia sono esclusivamente legati al contenimento dell’immigrazione.  L’Italia fornisce motovedette e soldi in cambio dell’arresto degli sbarchi. Il nuovo Governo ha isolato,nel peggiore dei modi, l’Italia. Non ha alcun progetto, non ha ruoli privilegiati per conferire con chi la guerra in Libia la sta creando. Non abbiamo una politica internazionale e neanche una politica europea. Come possiamo pretendere di svolgere un ruolo chiave per la soluzione del problema?

Quali furono e quali sono gli interessi strategici dell’Italia in Libia? 

Sono stati, ed in parte lo sono ancora oggi, quelli sanciti dal trattato di Bengasi. Per quanto riguarda la cooperazione energetica, la presenza della compagnia nazionale petrolifera ENI in Libia risale agli anni ’50. Eni è stata una delle prime compagnie petrolifere ad aver investito nel Paese ed ha esteso la sua presenza in Libia nel corso dei decenni successivi. Secondo alcune stime, nel 2010 (poco prima della caduta di Gheddafi), la Libia era il primo esportatore di petrolio verso l’Italia (rappresentava circa il 27% delle importazioni petrolifere di Roma) ed il terzo esportatore netto di gas (12,5%). Circa il 90% del gas prodotto in Libia veniva esportato attraverso il gasdotto Greenstream, che connette Mellitah, in Libia, a Gela. Il gasdotto è operato in join venture da ENI e dalla National Oil Corporation (NOC), la compagnia petrolifera libica. In quello stesso anno ENI produceva 273.000 barili al giorno di petrolio in Libia, circa il 15% della produzione totale della compagnia italiana. ENI era anche la principale compagnia petrolifera in Libia e produceva circa un quinto dell’output totale del Paese.

Oltre agli interessi energetici, la lotta contro il terrorismo era in linea con il nuovo corso libico adottato negli anni 2000. D’altra parte la lotta contro l’immigrazione irregolare è divenuta una delle principali priorità dei governi italiani nel corso degli ultimi decenni. Consapevoli del potente strumento di pressione su Roma, le autorità libiche hanno sempre utilizzato la carta dei flussi migratori per ottenere benefici dal governo italiano. Tuttavia, nel trattato di Bengasi vi era una specifica clausola che stabiliva una cooperazione approfondita tra i due Paesi per contrastare l’immigrazione clandestina: l’Italia si impegnava a fornire imbarcazioni per il monitoraggio delle coste libiche. Inoltre una specifica previsione stabiliva anche il monitoraggio delle frontiere terrestri, grazie a strumenti elettronici forniti espressamente da compagnie italiane.

Le primavere arabe hanno contribuito alla caduta di Gheddafi? Quale ruolo ha avuto l’Italia?

Certo, che hanno contribuito e la Comunità Internazionale ne ha approfittato.

Ispirati dalla Rivoluzione dei Gelsomini in Tunisia e dalla caduta di Hosni Mubarak in Egitto, diversi manifestanti scesero in strada per chiedere la fine del regime di Gheddafi. La successiva repressione convinse la comunità internazionale della necessità di intervenire. Allo stesso tempo, il Governo italiano che aveva una posizione privilegiata in Libia, rimase sorpreso. Tra l’altro, l’interventismo di alcuni paesi occidentali era difficile da contenere. La Francia di Nicolas Sarkozy stabilì una solida alleanza con Londra per sostenere i ribelli, mentre gli Stati Uniti di Barack Obama adottarono una posizione più cauta nonostante la volontà di allontanare Gheddafi. Ci sono diverse interpretazioni sull’interventismo della Francia. Alcune fonti ipotizzarono un accordo tra la Total, compagnia petrolifera francese, ed il National Transitional Concil, organo che rappresentava i ribelli che dopo la caduta di Gheddafi fu incaricato di gestire il periodo di transizione in Libia. I due “accusati” smentirono questo accordo ma i fatti successivi dimostrarono la veridicità di questa interpretazione.

L’Italia pertanto si è trovata, all’epoca, a fare una scelta difficile: sostenere Gheddafi e preservare la propria posizione privilegiata in Libia, o dare un contributo ai ribelli e alla caduta del regime di Gheddafi. Inizialmente Berlusconi ed il Ministro degli Esteri Frattini, ebbero una posizione attendista ma poi hanno ceduto alle aspirazioni interventiste degli altri paesi occidentali.

La caduta di Gheddafi inizia con la rivoluzione di Bengasi. Ci racconti di come il popolo si ribellò a Gheddafi e di come si arrivò alla sua uccisione. 

Eh, il racconto è lungo. Provo a sintetizzare ma mi viene difficile.

Tranquilla, se ci racconta episodi inediti siamo ben lieti di ascoltarla. 

La rivolta ebbe inizio a Bengasi, nel mese di febbraio. La gente si è riversata sulle strade per una protesta assolutamente pacifica. Il regime ha iniziato a sparare sula folla dei manifestanti. Centinaia di uomini e donne furono uccise. In quei giorni nella sede militare di Katiba c’era anche il figlio di Gheddafi, Saadi in compagnia di Abdullah Sanussi, il secondo uomo più importante del regime. Furono costretti a fuggire verso l’aeroporto internazionale. Qui, Saadi e Abdullah riuscirono a salire sull’aereo ma molti dei loro militari che li scortavano furono uccisi.

Lo scontro andò avanti per due giorni, fin quando Mohammed Ziu, un miliziano di Bengasi, decise di mettere alcune bombole di gas sulla sua auto e di schiantarsi contro il cancello di Katiba. I soldati continuarono a sparare e quel giorno morirono 200/300 persone. Da allora il regime ha sguinzagliato, contro i manifestanti, i mercenari facilmente riconoscibili poiché indossavano un casco giallo. Si trattava di immigrati, che lavoravano in Libia, costretti a fermare quella rivoluzione che a Gheddafi faceva paura. I cosiddetti caschi gialli di Gheddafi. Invece di intimidire i manifestanti, i caschi gialli fecero aumentare le folle rivoluzionarie. Molti di loro ormai sono armati.

In quel periodo la città di Bengasi viveva nella confusione e nel terrore. La gente aveva paura ad uscire di notte ma di giorno provava a far sentire la sua voce e soprattutto la sua presenza. Nessuno si sentiva al sicuro ma il profondo senso del dovere, quello che li spingeva ad andare avanti per liberare la città dall’opprimente e sanguinario regime, prevaleva su tutto. Anche sulla stessa sopravvivenza. Gheddafi pensava di risolvere quella rivoluzione con le armi e pensava di risolverla in poco tempo ma non fu così.

La rivolta si è trasformata in una insurrezione con più di 10.000 persone in strada decise a rovesciare il regime del colonnello. Gheddafi giura vendetta. Quando sembra che stia per avvenire un massacro, la Nato impone una No Fly Zone sulla Libia.

Il 23 marzo 2001 la NATO inizia l’operazione Unified Protector in conformità alla risoluzione del 1973 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per fermare la terribile violenza contro i civili libici. Gheddafi pensava che avendo al suo fianco esercito e milizie poteva controllare la rivoluzione e rimase sorpresa dell’intervento della Comunità Internazionale.

Rinvigorito dal sostegno della Nato, il popolo libico invade la città di Bengasi. L’esercito mercenario di Gheddafi inizia a defezionare e a disertare. A Bengasi iniziano i festeggiamenti.  La città di Bengasi è libera. Dopo alcuni giorni dalla liberazione, il popolo sentì udire delle voci dai sotterranei della struttura di Katiba (dove c’era anche la seconda casa di Gheddafi). Si trattava di una richiesta di aiuto da parte di prigionieri del regime di Gheddafi. Il popolo non era a conoscenza di ciò che accadeva a Katiba, pertanto rimase sconvolto quando trovo, dopo giorni di scavi con le ruspe, i prigionieri rinchiusi in una sorta di bunker al buio. Era un vero e proprio buco nero sottoterra. Dei superstiti raccontano che a Tripoli era ancora peggio. C’erano 62 basi militari come quella di Katiba con numerosi prigionieri del colonnello.

Nel frattempo Gheddafi aveva bisogno forze su cui fare affidamento senza legami tribali. Sapeva che molti di quelli che vivevano sul litorale settentrionale lo disprezzavano in quanto beduino. Così si fece amici i tuareg e i migranti neri. Molti furono incorporati nell’esercito. I tuareg non sono fedeli a nessuno Stato, per questo Gheddafi li ha assunti per fa parte del suo esercito. Si fida di loro. Ma non recluta solo tuareg, ma i mercenari di pelle nera. Gheddafi non aveva amici, ma se li comprava avendo tanti soldi. Lui aveva aerei e un vasto arsenale di armi tecnologicamente avanzate e strutture altamente tecnologiche. Queste attrezzature potevano essere utilizzate solo da personale adeguato. Per questo ha assunto i mercenari ucraini e russi, soprattutto cecchini e piloti di aerei.

Così i ribelli sono stati costretti a combattere con chi aveva i mezzi più avanzati per vincere una guerra. Loro avevano solo i pick-up attrezzati con i fucili. Avevano però un altro elemento a loro vantaggio: combattevano per la loro stessa vita e non come i mercenari che combattono per soldi. Dopo la vittoria di Bengasi non vedono l’ora di espandere la Rivoluzione. Il loro prossimo obiettivo è Ez Zawia. Conquistarla vuol dire ridurre lo spazio vitale di Gheddafi. Qui c’era una raffineria importante e il porto. Gheddafi però non si arrende. La città viene insediata e diventa lo scenario di brutali combattimenti. Quando i ribelli entrano in città per la seconda volta si trovano ad affrontare i cecchini mercenari arruolati da Gheddafi. Nonostante le formidabili forze pro Gheddafi, i ribelli riescono a cacciarli da Ez Zawia bloccando la fonte di ricchezza di Gheddafi. A questo punto i miliziani ribelli possono concentrarsi su Tripoli, ultima roccaforte del colonnello. Il 20 agosto i ribelli lanciano l’operazione Alba della Sposa di mare. Ciò che resta dell’esercito di Gheddafi sono i mercenari. Mentre i ribelli si avvicinano a Tripoli, liberano i villaggi circostanti, strada per strada. C’erano 4 fronti su cui si faceva la battaglia per la conquista di Tripoli. Inizialmente i ribelli si trovavano sul fronte meridionale, quello più importante che gli permise di controllare l’aeroporto internazionale per evitare la fuga di Gheddafi, poi dovettero conquistare gli altri tre fronti prima di arrivare a Tripoli.

I ribelli combattevano per il martirio. Sono musulmani e aspirano al martirio, come principio profondo di difesa della loro Patria. E’ questa la differenza. Ed è stata anche la loro forza. Se sei mercenario, quindi ti limiti a svolgere il tuo lavoro, vuoi arrivare a fine giornata vivo. Se sei un forte sostenitore della tua Patria e sei convinto di voler essere un martire e se hai anche una K47 in mano, diventi pericoloso: vuoi uccidere quante più persone possibili per la tua missione sapendo di morire prima della fine della giornata. Per questo motivo, Gheddafi si trovò da solo.

L’11 aprile del 2011 l’Unione Africana propose a Bengasi un piano di pace al Consiglio Nazionale di Transizione. Abdelhafez Ghoqa, Portavoce del Consiglio Nazionale di Transizione, risponde dicendo che “qualche mese fa avevano proposto a Gheddafi un cessate il fuoco ma lui ha violato ripetutamente l’appello, continuando gli attacchi e uccidendo i civili”. Continua parlando davanti a tutte le tv nazionali, dicendo che gli “è stato proposto un accordo di pace senza nessuna assicurazione, da parte dell’Unione Africana, sull’esilio di Gheddafi e la sua famiglia. Per questo motivo non è possibile cessare il fuoco, mentre le milizie del colonnello, tra l’altro, continuano gli attacchi”. Nello stesso giorno, il Presidente del Consiglio Nazionale di Transizione, Mahmoud Jabril, invita Gheddafi a lasciare immediatamente il potere

Tripoli era la sede del potere di Gheddafi, come Berlino per Hitler, e Gheddafi sapeva che era vicino alla fine. Nella capitale libica, il fuoco si apre.

Il 22 agosto la città era capitolata. Nell’arco di 3 giorni i miliziani avanzavano costringendo Gheddafi e le sue forze al ritiro nel palazzo di Babala Zizia, la casa, la fortezza ed il centro operativo di Gheddafi. Qui aveva un bunker sotterraneo a prova di bomba dove si trovavano i servizi segreti del colonnello. I ribelli devono affrontare una serie di bombardamenti. Non era facile bombardare la fortezza di Gheddafi. Nel frattempo i mercenari sono scomparsi all’orizzonte. La consapevolezza di una vittoria, i ribelli la ebbero quando arrivarono nella statua d’oro che abbatterono. Per assumere il controllo, i ribelli dovevano conquistare il palazzo. Un bersaglio di 6 km molto difficile da affrontare. I ribelli hanno eliminato ogni segno che ricordava la dittatura di Gheddafi ma non avevano ancora stanato il colonnello. Babala Zizia aveva dei tunnel segreti e fortificati. Gheddafi era scappato. Non c’era nel palazzo. Forse è scappato da uno dei tunnel segreti. Babala Zizia fu distrutta. Oggi non è altro che una discarica odiata dai libici.

Qualcuno ha dato notizia che Gheddafi si trovava nel deserto a sud. E’ andato a Sirte, la sua città natale, e i ribelli lo inseguono. Qui si è trovato accerchiato. A occidente c’erano le milizie di Misurata. Per questo lo hanno convinto a scappare, l’idea era di dirigersi al sud verso il Niger. Qualcuno ha visto il suo corteo di automobili lasciare Sirte. I mezzi vengono bombardati dagli aerei Nato. Riuscito ad uscire dalla sua auto bombardata, si nasconde in una tubatura di scarico. Era ferito da un colpo da arma da fuoco. Viene trascinato fuori dalle milizie di Misurata, percorso e umiliato. Le immagini hanno fatto il giro del mondo. Gheddafi è morto e i ribelli conquistano il potere. I ribelli rastrellano la città e uccidono i fedeli di Gheddafi. Non avendo una politica unica, ogni milizia è libera di applicare la giustizia più adatta per i mercenari.

Dopo la caduta di Gheddafi, quali conseguenze per la Libia e per il mondo occidentale? Quali responsabilità dell’Occidente?

La situazione è quella che ho spiegato nella prima domanda. A condizionare gli equilibri politici nazionali sono attori locali (città, tribù, milizie), i quali si presentano frammentati e, soprattutto, armati. Tra criminalità, regolamenti dei conti politici e ideologici e scontri tribali, le autorità di transizione sono totalmente impotenti ed il paese è caduto in anarchia con una crisi politica ed economica senza precedenti. Il processo di transizione doveva concludersi dopo pochi mesi con l’adozione di una Costituzione. Proprio per la mancanza di progressi nel processo costituzionale, il Congresso Nazionale ovvero il Parlamento provvisorio, ha annunciato l’estensione del suo mandato fino al 2014. Decisione che ha diviso le forze politiche, le milizie e la popolazione.

Non servì nè l’operazione UNSMIL dell’Onu, nè l’impegno degli Stati Uniti poichè entrambi gli interventi avevano lo scopo di stabilire la sicurezza disarmando le varie milizie. I compiti essenziali di stabilire la sicurezza, di ricostruire le Istituzioni Politiche, e di riavviare l’economia, tuttavia, sono stati lasciati quasi interamente ai leader della Libia, da cui ci si aspettava, inoltre, che pagassero il prezzo maggiore della ricostruzione, data la ricchezza petrolifera del Paese.

La Libia, però, aveva bisogno di altro. Di una vasta revisione delle Istituzioni preposte alla sua sicurezza interna per divenire uno Stato moderno funzionante. Uno dei problemi più gravi della nuova Libia era rappresentato da gruppi armati e dalle brigate rivoluzionarie che avevano combattuto durante la guerra contro il regime che stavano diventando una delle principali fonti di insicurezza.

Le forze ribelli che avevano rovesciato Gheddafi erano altamente frammentate. Inoltre, dopo la caduta del regime, si sono formati altri gruppi armati tra cui quelli dei jihadisti a nord. A posteriori era chiaro che alcuni di questi gruppi armati erano già una minaccia per la sicurezza interna. Disarmare e consolidare il controllo di questi gruppi armati è stata una priorità per il Governo “ad interim” di Abdul Raheem di Al-Keeb dal momento in cui ha prestato giuramento, il 24 novembre, ma la sfida si è dimostrata insormontabile. In assenza di una forte e legittimata autorità centrale, con una popolazione pesantemente armata, un processo di smobilitazione e reintegrazione in fase di stallo, i conflitti interni hanno cominciato a proliferare in tutta la Nazione pochi mesi dopo la fine della guerra. La violenza ha assunto svariate forme, che sono andate dalle dispute tribali.

Bisogna anche aggiungere che a livello istituzionale la Libia è contesa fra due autorità che non hanno reale controllo sul territorio: una a Tripoli e l’altra a Tobruk. L’autorità con sede a Tobruk, nell’est del paese, è il parlamento democraticamente eletto e riconosciuto in Occidente (ONU, USA, Francia, Germania, Italia e Regno Unito), ma che non riesce a governare che una piccola porzione del Paese. Invece a Tripoli risiede il Congresso Generale Nazionale (CGN), caratterizzato da un sostegno dei miliziani islamici della coalizione Alba Libica. Il CGN, rivendicando ancora la legittimazione popolare ricevuta con la vittoria alle elezioni del 2012, si è rifiutato di lasciare l’incarico di governo al nuovo esecutivo uscito vincitore dalle elezioni del 2014. Ognuno dei due governi è appoggiato da un coalizione di bande, milizie e signori della guerra locali. Di fatto, la Libia è oggi uno stato fallito, dove non esiste più un potere centrale e dove l’autorità è esercitata, quando è esercitata, dalle milizie locali. Tra i due governi c’è una relazione molto complicata: i loro emissari si incontrano spesso ai tavoli delle trattative organizzati dagli inviati dell’ONU, ma trovare un accordo per un cessate il fuoco è reso complicato dal fatto che il controllo che i due governi esercitano sulle loro stesse milizie è molto labile. Di fronte a questo quadro drammatico, si fa sempre più forte l’avanzata del generale Haftar.

Quindi, secondo lei, l’Occidente ha delle responsabilità ben precise?

Si certamente, ha delle responsabilità enormi. Gliele voglio raccontare portando le parole di due politici di alto livello.

Il primo è l’ex Presidente degli Stati Uniti Barack Obama che vicino al termine del suo secondo mandato, in un’intervista al settimanale The Atlantic, definì un “disastro” la situazione in Libia, ed un “errore” il suo sostegno all’intervento Nato, voluto dagli alleati di Londra e Parigi. A volere la guerra, per ragioni geostrategiche, fu infatti, soprattutto l’allora presidente francese Sarkozy, che sobillò la rivolta anti-Gheddafi per ottenere il controllo del petrolio libico e per scongiurare la creazione da parte del Raìs di una nuova moneta unica per gli scambi all’interno dell’Unione Africana.

Il secondo è Naser Seklani, ex deputato libico, tra i primi ad aderire alla rivolta del 2011 e che oggi si chiede se quella fu una vera rivoluzione: “Siamo stati felici di liberarci di Gheddafi, ma adesso cominciamo a chiederci chi realmente abbia portato avanti la rivoluzione e sentiamo che non si sia trattato di una vera rivoluzione libica ma sia stata il frutto di una decisione internazionale”. Ha detto Seklani in una intervista rilasciata alla Bbc. “Quello che stanno facendo ora le Nazioni Unite prova questa teoria “perché hanno imposto persone che vengono da fuori (Sarraj a capo del Governo di Unità Nazionale) e che i libici respingono perché arrivano per lavorare a favore degli Stati Uniti, dell’Europa, del Qatar e non del popolo”.

Ecco, credo che queste due interviste, seppur in breve, chiariscono ogni dubbio sulle responsabilità principali della Comunità Internazionale sulla caduta di Gheddafi e sulla successiva crisi libica mal gestita dalle Nazioni Unite.

C’è da dire, inoltre, che Il caos libico ha provocato la destabilizzazione dell’intera area sahelo-sahariana. Ilconflitto in Mali del 2012 e il rafforzamento dei gruppi jihadisti e criminali operanti nella zona, con i fiumi di armi arrivate nelle mani dei terroristi attraverso i confini porosi del deserto del Sahara, sono solo alcune delle conseguenze della rivoluzione del 2011. Solo alcune.

Si è parlato molto dell’avanzata del generale Haftar e di una possibile guerra civile. Lei cosa pensa? Quali saranno le conseguenze? Ci può essere una soluzione per una trattativa di pace? 

Sull’avanzata del generale Haftar dico che era prevedibile. Già nel 2016 Haftar ha conquistato le infrastrutture petrolifere che si trovano nella cosiddetta “Mezzaluna del petrolio”, tra Sirte e Bengasi. Adesso la situazione è degenerata perchè non si è mai voluta trovare una soluzione concreta, sin dall’inizio. Ormai le milizie e le tribù sono ben organizzate e schierate. Quindi, si, è possibile l’inizio di una guerra civile che, se dovesse avvenire, porterà conseguenze enormi per tutta la Comunità Internazionale ed in particolare per il nostro Paese che si trova a due passi dalla Libia. Prima fra tutte una nuova ondata migratoria che potrebbe essere caratterizzata da pericoli di terrorismo visto che il caos libico sta riportando in Libia i foreign fighters che fuggono dalla Siria.

Non so se adesso è possibile trovare una soluzione concreta, quello di cui sono certa è che le soluzioni andavano trovate prima che la situazione diventasse una emergenza e che per trovare una soluzione concreta si deve anteporre il bene collettivo agli interessi personali dei vari Stati. Ergo, se noi pensiamo solo agli interessi economici dei singoli Stati, non possiamo pretendere di essere in grado di gestire una crisi come quella della Libia. Tutti i tentativi, che sono andati in questa direzione sono falliti. Compresi quelli che hanno portato in Siria la distruzione di un intero territorio. Ecco, temo che in Libia possa accadere la stessa cosa, se non peggio.

Lei, che di immigrazione si intende, pensa che davvero possano venire in Italia 800 mila migranti? 

Assolutamente no. La provocazione di Sarraj, quella in cui dice che ci sono 800 mila migranti pronti a partire per l’Italia, è un patetico tentativo di cercare aiuto visto che è rimasto solo ed isolato. Semmai possono aumentare le partenze, che già ci sono e restano invisibili. Per aumento delle partenze intendo che, nel caos della Libia, con l’apertura dei centri di detenzione e la liberazione dei migranti che sono anche costretti a combattere una guerra che non è la loro, certamente ci sarà una nuova emergenza che nei numeri è comunque contenuta e contenibile. Male che possa andare, ne partirebbero un centinaio al giorno. Ammesso e concesso che trovino le grandi imbarcazioni che negli anni sono state distrutte a favore dei gommoni acquistati dai trafficanti.

Cosa dovrebbe fare, secondo la sua opinione, l’Italia per fronteggiare una possibile nuova emergenza migratoria? 

Chi si occupa di immigrazione, come me ne occupo io, sa come affrontare l’emergenza. Con professionalità, umanità, rispetto delle norme e dei trattati internazionali, procedure di identificazione, impronte e accertamento delle fedine penali.
Dubito invece che questo Governo italiano sia in grado di organizzare l’accoglienza. Dopo aver eliminato il sistema di accoglienza efficace, ridotto le risorse umane negli Hotspot e abolito i percorsi professionali necessari per l’accoglienza, ci troveremo di fronte ad una emergenza da affrontare in modo approssimativo. E allora si che ci sarà il caos.

Si possono chiudere i porti? Salvini li chiuderà? 

Assolutamente no! Non si possono chiudere i porti soprattutto perchè stiamo parlando di migranti che fuggono da una guerra. La Libia è in guerra sin dalla caduta di Gheddafi e questo Governo non lo ha ancora ben capito. La Libia è luogo di torture, di negazioni dei diritti fondamentali dell’uomo, di atrocità indescrivibili. Chiunque viene dalla Libia ha diritto a fare Domanda di Asilo Politico, anche coloro che da anni sono intrappolati in quei lager dell’orrore. Pertanto, Salvini non può annunciare promesse false. Che poi, per onor di legge, i porti sono di Competenza del Ministero delle Infrastrutture e ad oggi nessun atto ufficiale ha previsto la chiusura dei porti. Infatti a Lampedusa, continuano a sbarcare migranti senza che nessuno ne da notizia. Non tollero chi, nella sua incompetenza totale, fa campagna elettorale sulla pelle dei più deboli promettendo soluzioni che non si possono applicare nel rispetto della legge e aizzando all’odio. La politica è una cosa seria e riguarda la vita di tutti i cittadini italiani e anche di coloro, così come previsto dalla nostra Costituzione, chiedono Asilo nel nostro Paese.

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