Lea Garofalo, la donna che lottò da sola contro l’ndrangheta e fu abbandonata dallo Stato!

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Ergastoli per Carlo e Vito Cosco, Rosario Curcio e Massimo Sabatino. Venticinque anni (attenuanti generiche) al collaboratore Carmine Venturino, assoluzione per Giuseppe Cosco. Isolamento diurno per un anno a Carlo Cosco e otto mesi per Vito Cosco.

Risarcimento economico a Denise Garofalo. Questa la sentenza di secondo grado emessa dalla I Corte d’Assise d’Appello di Milano per la morte di Lea Garofalo. La donna coraggio, la fimmina ribelle, la mamma di Denise, che ha avuto la forza di sfidare, da sola, la ‘ndrangheta. Una donna nata e vissuta in una famiglia mafiosa. Suo padre Antonio, boss di Pagliarelle, viene ammazzato nel 1975; suo fratello Floriano (detto Fifì), boss e contabile della cosca dei petilini a Milano, nel 2005. Fifì è il ‘canale’ utilizzato da Carlo Cosco per scalare l’organizzazione. “Lui è convivente mio e lo lasciano fare” dirà la donna ai magistrati. Una fimmina che ha conosciuto da vicino la ‘ndrangheta e, per amore di sua figlia Denise (nata dall’unione con Carlo), ha cercato con tutte le sue forze di allontanarsi. Per cambiare vita.

E’ stata lasciata da sola. Si è sentita abbandonata da tutti, anche dallo Stato. Il suo memoriale indirizzato al Presidente della Repubblica, scritto nell’aprile del 2009 (un mese prima del tentativo di sequestro di Campobasso), verrà pubblicato sui giornali solo dopo la sua morte (novembre 2009). Testimone di giustizia, nel programma di protezione dal 2002 al 2009. Anni difficili, città diverse, poche amicizie, ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato. Nessun processo nato dalle sue dichiarazioni. Sempre rinchiusa in casa, con la pressione, le minacce e le intimidazioni del clan Cosco. Già agli inizi degli anni 2000 il suo convivente, nel carcere dove era detenuto per fatti di droga, chiese il consenso alla ‘ndrangheta per eliminare la donna. Un delitto d’onore, per cancellare il tradimento. Anni difficili anche per la ‘ndrangheta, una guerra in corso fa saltare i piani di Carlo Cosco.

Che non si ferma, è ossessionato dalla collaborazione di Lea, la rincorre senza ottenere alcun tipo di risultato. Con la fine della protezione dello Stato arriva il nuovo piano criminale, con la complicità del falso tecnico della lavatrice: il pluripregiudicato di Pagani (Sa), Massimo Sabatino (condannato definitivamente a Campobasso a sei anni di reclusione, con l’aggravante mafiosa). Il clan studia e tenta nuovamente l’eliminazione.

La donna ha parlato con i magistrati degli affari dei Cosco, del traffico di droga, degli omicidi, della scalata. Ma il piano di morte del clan fallisce miseramente, per la presenza di Denise, lo scudo protettivo di Lea. Pochi mesi dopo, il 24 novembre 2009, a Milano (sede operativa dei Cosco, in viale Montello) la ‘soluzione finale’. Con una scusa le due donne vengono separate. Denise viene portata dai parenti in viale Montello e Lea, ripresa per l’ultima volta da una telecamera per le strade di Milano, finirà con i suoi carnefici. In primo grado (sentenza del 30 marzo 2012) sei persone (i tre fratelli Cosco, Curcio, Venturino e Sabatino) vengono condannate all’ergastolo, senza l’applicazione dell’articolo 7 (l’aggravante mafiosa) e senza il corpo della donna. Nel novembre scorso il colpo di scena: Carmine Venturino, l’ex fidanzatino di Denise (dopo la morte di Lea, Carlo Cosco teme la reazione della figlia e utilizza Venturino per controllare la ragazzina) parla e fa ritrovare i resti del corpo di Lea. In un campo in Brianza.

Resti riconosciuti grazie al test del dna e alla collana che Lea portava al collo. Non è stata sciolta nell’acido, è stata bruciata con la benzina. È Carmine Venturino che descrive la scena agli inquirenti: “C’era un fusto di quelli che si usano per la benzina, lo spostiamo, lo mettiamo in una zona coperta, apriamo lo scatolo e rovesciamo il cadavere nel fusto e gli diamo fuoco completamente. Spuntavano solo le scarpe. Il cadavere bruciava lentamente. Allora Curcio ha preso dei bancali di legno, ha messo il corpo in mezzo e gli ha dato fuoco di nuovo. In quel modo la testa si era consumata ma restavano il busto e metà delle cosce. Faceva fumo, si sentiva puzzo di bruciata, io sono stato tutto il tempo con il naso coperto, l’odore era fortissimo. Mentre bruciava il corpo per accelerare la distruzione spaccavamo le ossa”.

Nel secondo grado di giudizio la musica è cambiata, la strategia difensiva non si poteva basare più sull’assenza del corpo. Gli avvocati difensori non potevano più parlare di fuga all’estero. “Lea amava l’Australia”. I resti del corpo hanno messo in difficoltà gli ergastolani. Nella prima udienza la confessione di Carlo Cosco: “mi assumo la responsabilità per l’omicidio di Lea Garofalo”. Per il pentito di ‘ndrangheta Luigi Bonaventura è diventato un boss ancora più potente. Poi le deposizioni di Carmine Venturino (“un delitto di ‘ndrangheta”) che hanno scagionato il fratello maggiore dei Cosco, Giuseppe. Secondo Carlo Cosco un semplice ‘raptus’, non un’azione pianificata nel tempo. “Lei mi aveva fatto soffrire e minacciava di non farmi più vedere mia figlia e questa minaccia mi ha fatto impazzire. Ci tengo a sottolineare che chiesi io a Venturino, dopo la sentenza, di assumersi la responsabilità, perché lui era l’unico testimone quando io la uccisi in preda a un raptus”. Un delitto passionale, non di ‘ndrangheta. Secondo la loro ‘comune strategia’. Il pubblico ministero Tatangelo nella sua requisitoria ha parlato di “un’intesa comune tra gli imputati, ma non ho prova certa”. La stessa tesi dell’avvocato Roberto D’Ippolito, legale di Marisa e della signora Santina (la madre di Lea morta nel novembre scorso): “si sono messi d’accordo tra loro per contenere i danni e quella mazzata di sei ergastoli che era arrivata”.

L’impianto accusatorio ha tenuto, la sentenza di secondo grado ha confermato quattro ergastoli, senza l’aggravante mafiosa. Per Venturino 25 anni di reclusione, per Giuseppe Cosco l’assoluzione. Il gip del Tribunale di Milano, Giuseppe Gennari, descrive con queste parole ‘Smith’ (Giuseppe Cosco): “delinquente professionista, con una lunghissima serie di precedenti, gestore principale delle usure, dedito a sistematica vendita di stupefacenti, sua tradizionale attività di elezione. Dopo venti anni a commettere reati, il pericolo di reiterazione è una certezza”. Nei mesi scorsi strane lettere (scritte da Carmine Venturino) sono state pubblicate sul ‘Quotidiano della Calabria’, con minacce di morte indirizzate a Rosario, figlio di Marisa (sorella di Lea). L’unico figlio maschio della famiglia Garofalo. Con l’assoluzione del ‘delinquente professionista’ si possono ipotizzare nuove azioni intimidatorie? E Denise? Per Giuseppe Lumia, componente della Commissione Antimafia: “lo Stato deve stare accanto a Denise senza fare gli errori che ha fatto con Lea”.

“L’antimafia è senza fondi” Coisp contro i tagli alla Dia.

La Direzione investigativa antimafia (Dia) annaspa tra tagli alle indennità di rischio e agli straordinari senza contare la riduzione del personale di un terzo. Dei tremila agenti previsti in servizio  sono solo poco più di mille quelli effettivamente in forze alla Dia, da sempre in prima fila per combattere il radicamento e la proliferazione di Cosa Nostra.

La denuncia parte dal Coisp (coordinamento per l’indipendenza sindacale delle forze di polizia) e arriva fino ai microfoni di Stefania Petyx, su Striscia la Notizia.  Il Coisp quindi ha lanciato un appello al ministro dell’Interno  Angelino Alfano, affinché le risorse ricavate dai beni confiscati alla mafia vengano investite per finanziare il dipartimento.

MAFIA: RIUTILIZZO BENI CONFISCATI SOSTEGNO A LEGALITA’ PON SICUREZZA FINANZIA PROGETTI PER MIGLIORARNE GESTIONE

ROMA
(ANSA) – ROMA, 29 MAG – Il bilancio del progetto finanziato dal Pon Sicurezza sul reinserimento nel circuito produttivo legale dei beni confiscati alle mafie sarà presentato domani a Palermo, nella Regione in cui vi è il più alto numero di beni confiscati. “I progetti di riutilizzo dei beni confiscati alle organizzazioni criminali – ha dichiarato l’Autorità di Gestione del PON Sicurezza, Prefetto Emanuela Garroni – rappresentano un elemento qualificante del PON Sicurezza 2000/2006 e 2007/2013 come strumento per sostenere la legalità e lo sviluppo socio-economico nel Mezzogiorno. Ed è proprio la positiva esperienza nella precedente programmazione che ha indotto a creare in quella attuale uno specifico obiettivo operativo dedicato al finanziamento dei progetti per il miglioramento della gestione dei beni confiscati alla criminalità organizzata”. “Lo studio, finanziato dal PON Sicurezza e realizzato dal Consorzio Interuniversitario Transcrime – ha aggiunto il Prefetto Garroni – è finalizzato, da un lato, a valutare l’efficacia delle progettualità finanziate nell’ambito del settore beni confiscati e, dall’altro, ad esaminare le strategie di investimento delle organizzazioni criminali nell’economia legale”. All’incontro, alla prefettura di Palermo, interverranno il Vice Capo Vicario della Polizia di Stato, Alessandro Marangoni, il Prefetto di Palermo, Umberto Postiglione, il Direttore del Servizio di Analisi Criminale della Direzione Centrale di Polizia Criminale, Generale Luigi Curatoli e il presidente della Commissione Antimafia del Parlamento Europeo, Sonia Alfano. (ANSA).

Avete chiuso cinque bocche, ne avete aperte 50 milioni!

di Pietro Monico
l mio personale pensiero quotidiano ma oggi più di ieri :
[Apriamo quella finestra e cominciamo a respirare quel profumo di libertà, ricordare la strage di capaci e chi lì perse la vita, significa ancora oggi RICORDARE un sacrificio che non è stato vano. Noi siamo nati nel 92, la nostra coscienza è nata in quel posto, su quella strada e forse anche in ritardo, ma una cosa è certa, NOI siamo la Generazione’ 92 perchè se] “Avete chiuso cinque bocche, ne avete aperte 50 milioni.”

Quel concorso esterno da sempre troppo osteggiato!

di Pietro Monico
Condanna dimezzata per concorso esterno in associazione mafiosa. Niente carcere e intercettazioni per chi svolge attività sotterranea di supporto ai componenti dell’associazione mafiosa. Si dovrà dimostrare che c’è un profitto. Lo prevede il testo Pdl appena assegnato in commissione Giustizia del Senato, relatore Giacomo Caliendo.

Attualmente, il concorso esterno in associazione mafiosa è punito con il carcere fino a 12 anni. Ma sinora non si trattava di una norma ‘tipizzata’ nell’ordinamento. Lo diventerebbe con il progetto di legge da oggi all’esame della commissione Giustizia, su iniziativa del Pdl. Nel testo, infatti, si prevede l’introduzione di due nuovi articoli nel codice penale: il ‘379-ter’ e il 379-quater’. Il primo (“Favoreggiamento di associazioni di tipo mafioso”) prevede che chiunque, fuori dei casi di partecipazione alle associazioni di cui all’articolo 416-bis, agevoli deliberatamente la sopravvivenza, il consolidamento o l’espansione di un’associazione di tipo mafioso, anche straniera, è punito con la reclusione da uno a 5 anni.
Il secondo (“Assistenza agli associati”) stabilisce che chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato o di favoreggiamento, dia rifugio o fornisca vitto, ospitalità, mezzi di trasporto, strumenti di comunicazione a taluna delle persone che partecipino a un’associazione di tipo mafioso, anche straniera, al fine di trarne profitto, è punito con la reclusione da 3 mesi a 3 anni. La pena è aumentata se l’assistenza è prestata continuativamente.
L’articolo 418 del codice penale, invece, verrebbe abrogato. Se queste norme venissero introdotte nell’ordinamento le conseguenze sarebbero varie e tutte di una certa rilevanza visto che avrebbero un riflesso anche sui giudizi in corso grazie al principio del ‘favor rei’: prima di tutto il concorso esterno verrebbe derubricato alla categoria ‘favoreggiamento’ e questo comporta di per sè una riduzione della pena che passerebbe infatti da un massimo di 12 anni a un massimo di 5 (cioè da 1 ai 5 anni). Il che significa che ci sarebbe uno stop alle intercettazioni visto che gli ascolti vengono consentiti in caso di reati per i quali sono previste condanne superiori ai 5 anni.
Poi, per chi ‘supporta’ i componenti dell’associazione mafiosa, la pena fissata nel ddl va dai 3 mesi a 3 anni. E questo comporterà che non scatterà la custodia cautelare in carcere: il tetto perchè scatti, infatti, è di 4 anni. In più, perché si possa condannare il ‘sostenitore’ o ‘l’assistente’ esterno all’associazione mafiosa, si dovrà dimostrare che dalla sua azione si ricavi un profitto.

http://www.repubblica.it/politica/2013/05/21/news/pdl_dimezzare_pene_concorso_mafioso-59285723/?ref=HRER1-1

La Beatificazione di Don Pino Puglisi e il funerale di Don Gallo.

Due eventi scuotono la coscienza della Chiesa in questi giorni: la celebrazione della beatificazione di don Pino Puglisi a Palermo con la partecipazione di decine di migliaia di fedeli, e i funerali di un sacerdote come don Andrea Gallo, simbolo di un cattolicesimo di base spesso al limite dell’irriverenza dottrinale ma sempre vicino ai più emarginati, dai tossicodipendenti, agli immigrati, alle prostitute. Si tratta di due percorsi di vita assai diversi fra loro eppure coincidenti nella scelta di un Vangelo dalla parte degli ultimi: il quartiere Brancaccio a Palermo, la Comunità di San Benedetto al porto a Genova. Don Gallo ha anche praticato l’impegno politico, la battaglia controversa, il discorso pubblico su temi scomodi pure per la dottrina; Don Puglisi è stato di certo un educatore, un prete coerente, che ha provato però a svuotare il lago in cui nuotavano i pesci mafiosi. La Chiesa italiana trova dunque due modelli, esempi di vita popolari, lontani da quell’immagine un po’ retorica e alla fine quasi imbalsamata della Chiessa degli ultimi anni, con gerarchie forse fin troppo ufficiali e formali nelle loro pose, nelle photo-oppotunity con i vari governanti che si sono succeduti.

La realtà dell’episcopato è certo più complessa, molti sono i pastori impegnati nei territori, eppure sembra che lo stesso presidente della Cei Angelo Bagnasco sia piuttosto in imbarazzo di fronte a questo sommovimento. Qualcosa di simile accadde nel settembre scorso con la morte del cardinale Carlo Maria Martini, quando sfilarono davanti alla bara del grande porporato 200mila persone a testimonianza che esisteva un’altra chiesa, viva, lontana dagli intrighi che in quel periodo scuotevano il Vaticano.

Bagnasco ha commentato con una certa prudenza, di fronte alla stampa, la beatificazione di don Pino Puglisi: il timore è quello che il sacerdote ucciso dalla mafia nel 1993 possa diventare una sorta di “santo politico”, al di là della volontà e del controllo della Chiesa. Timore in certo modo fondato; da questo punto di vista, infatti, l’esempio di don Puglisi è già un modello evangelico che supera gli stretti canoni dell’ufficialità.

Don Pino Puglisi, ha detto il presidente della Cei, è stato ucciso “in odium fidei”, per questo è martire. Una lettura diversa – la lotta alla mafia e al crimine organizzato – prevalentemente sociologica è gravemente riduttiva. Punto e basta. E tuttavia quell’odium fidei stabilito dalla causa di beatificazione, sta esattamente a significare che i fratelli Graviano, mandanti dell’omicidio, hanno ucciso un sacerdote perché non tolleravano proprio il fatto che il prete combattesse la criminalità organizzata attraverso l’educazione, cioè provando a portare via manovalanza futura a Cosa Nostra restituendo un’altra scala di valori ai giovani dei quartieri estremi di Palermo.

È quindi la mafia che uccide in odio alla fede: per la Chiesa del Mezzogiorno di tratta di una rivoluzione che andrebbe rivendicata con forza e che arriva dopo una lunga storia di convivenza e a volte connivenza delle strutture ecclesiastiche locali con il fenomeno mafioso. Non per caso sull’Osservatore romano che porta la data di oggi, il postulatore della causa di beatificazione, l’arcivescovo di Catanzaro, monsignor Vincenzo Bertolone, ha scritto: “Il suo martirio è stato il segno dell’insanabile e definitiva rottura tra Vangelo, mafia ed altre consimili società delinquenziali. È la profezia per l’oggi: la solitudine nella quale avvenne il suo martirio è diventata la compagnia della nostra azione”. Non solo: “In ossequio alla loro religione i mafiosi uccidono Puglisi in odio alla sua, e ciò non può essere assimilato a un semplice problema di legalità o illegalità, giustizia e ingiustizia sociale: la mafia è una religione e non solo un fenomeno criminale, e non ammette altre fedi. È questo, e non altro, che ha provocato l’odio dei mandanti e dell’assassino, che sapeva bene di ammazzare un uomo della Chiesa di Cristo coerente con la sua fede, fino al martirio”.

Si tratta, insomma, di uno di quegli eventi destinati a cambiare la storia della presenza della Chiesa nel nostro Paese a partire da quel Meridione crocevia non solo di crisi e problemi, ma spesso anche foriero di quei cambiamenti culturali e sociali in grado di investire l’intera penisola. L’eccesso di prudenza della presidenza della Cei, si spiega forse allora con la scarsa abitudine praticata in questi anni a confrontarsi con un mondo non pacificato, contraddittorio, terribilmente complesso. A celebrare la messa di beatificazione saranno in ogni caso l’arcivescovo di Palermo il cardinale Paolo Romeo e il cardinale Salvatore de Giorgi, in rappresentanza del Papa ex arcivescovo del capoluogo siciliano che diede il via alla causa di beatificazione.

La vicenda di don Gallo ha un profilo diverso, il prete genovese fu spesso in contrasto con i suoi superiori anche se non rinnegò mai la Chiesa e il suo ordine. Pure in questo caso l’arcivescovo di Genova è stato forse troppo avaro di parole di fronte a una personalità certamente non facile e che tuttavia si era conquistato una popolarità straordinaria in ragione della sua presenza fra gli ultimi. “Celebro i funerali di tutti i miei preti che tornano a Dio – ha detto Bagnasco – lo ritengo un mio dovere di padre. Con lui – ha ricordato – c’è stato sempre un dialogo franco e paterno. Don Gallo me lo ha sempre riconosciuto e io pure ne do atto. Veniva quando lo chiamavo, e anch’io sono andato da lui a San Benedetto al Porto dove è stato sempre in una struttura della Chiesa, la stessa dove lo aveva destinato il cardinale Giuseppe Siri. E mai nessuno lo ha messo fuori”. Non molto. Forse anche per questo a concelebrare con Bagnasco ci sarà don Luigi Ciotti, un altro di quei preti impegnati che non rinunciano alla dottrina alla Chiesa ma che raccolgono un seguito straordinario in ragione della loro irriducibile testimonianza. 

Fonte: l’inchiesta

Nasce anche in Puglia la Rete della Legalità del Mezzogiorno, Davide Leone è il responsabile. In Calabria, altro innesto importante, Tania Ruffa sarà l’altra responsabile della Rete.

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Anche in Puglia nasce la Rete della Legalità del Mezzogiorno, Il suo referente sarà il 33enne Davide Leone. In Calabria, altro nuovo innesto: Tania Ruffa, referente regionale.

La rete, fondata il 29 settembre 2012 in provincia di Avellino, è presente in tutto il Mezzogiorno attraverso vari attivisti in ogni regione del Sud Italia che intendono muovere le loro azioni a favore della legalità attraverso la collaborazione di altre forze politiche, civiche ed associative che abbiano in comune con la Rete la stessa mission.

Obiettivo della Rete della legalità è quello di diffondere – attraverso azioni coordinate con altre realtà nazionali e territoriali –  la cultura del rispetto delle regole del vivere comune e della legalità come pilastro per la costruzione di una società sana sia socialmente che economicamente. “Siamo consapevoli che dalla diffusione di una cultura della legalità passi anche il rilancio economico e sociale del Meridione e dell’Italia, terra dalle enormi risorse e dai bellissimi paesaggi, troppo spesso umiliati e danneggiati da chi non rispetta le regole. ” afferma Davide Leone, neo coordinatore della Rete della Legalità del Mezzogiorno per la Regione Puglia.

L’azione della Rete, iniziata nel mezzogiorno intende nel futuro prossimo allargarsi anche al Centro ed al Nord Italia, nella consapevolezza che la questione della legalità non è solo questione meridionale.

Un altro innesto importante nella Rete della Legalità del Mezzogiorno calabrese con il nuovo ingresso di Tania Ruffa, una giovane donna che sarà responsabile regionale della Rete in Calabria insieme ad Anna Rita Leonardi, una delle promotrici storiche. Insieme le due giovani donne calabresi guideranno la vasta Rete in Calabria, una regione in cui vi è una forte presenza dell’n’drangheta.

“Far parte della rete della legalità e rappresentare una regione ed una provincia come la mia, Vibo Valentia, è una grande responsabilità. Una rete che abbraccia tutte le regioni del Mezzogiorno, insieme cercheremo di fare Rete, appunto, e di diffondere una cultura della legalità” – è quanto dichiarato da Tania Ruffa.
“Sappiamo bene che in un momento di crisi economica questa è collegata ad un processo economico e ad un piano di sviluppo più ampio. La mancanza di lavoro purtroppo porta a cercare vie alternative diverse. Cultura della legalità significa questo, rispetto delle regole, del prossimo, della Costituzione, una società sana non può vivere con di ricatti e discriminazioni”. “Ripartire dalla scuola,  conclude la Ruffa – combattere la dispersione scolastica che al Sud tocca livelli altissimi e creare con gli insegnanti una rete che metta al centro la meritocrazia e il rispetto, di tutti”.

 

Don Puglisi: tutto pronto per la beatificazione. Attese 80.000 persone a Palermo.

ImmaginePALERMO, 24 MAG – Tutto pronto per la beatificazione di padre Pino Puglisi che da domani sara’ canonicamente venerato come martire della Chiesa palermitana. Al Foro Italico, a Palermo, dove si svolgera’ la celebrazione, e’ tutto pronto per ospitare gli 80.000 fedeli previsti, provenienti da ogni parte d’Italia .
”Il martirio di Padre Puglisi richiama l’educazione delle coscienze – afferma il cardinale Polo Romeo – e la Chiesa deve essere in prima linea. Qui si capisce la grandezza del martirio di don Puglisi, che e’ stato ucciso perche’ era un prete che formava le coscienze, costruiva la comunita’ parrocchiale e aiutava le persone a uscire dai meccanismi che le rendono schiavi. Questo evidentemente dava fastidio. Percio’ penso che la sua beatificazione ci aiutera’ a prendere coscienza del vero cambiamento da attuare. La gente pensa infatti che devono cambiare gli altri. E invece don Puglisi ci dice che ognuno di noi ha qualcosa da cambiare nel proprio cuore, nel proprio pensare, nel proprio agire. Solo cosi’ la civilta’ dell’amore potra’ affermarsi”.
La celebrazione Eucaristica cui prenderanno parte 40 Vescovi, 750 presbiteri e 70 diaconi, sara’ presieduta dal card. Paolo Romeo, mentre il rito di beatificazione sara’ presieduto dal cardinale Salvatore De Giorgi, delegato di Papa Francesco. (ANSA).

Giornata della memoria e della solidarietà: ricordando Falcone e Don Gallo ed esprimendo solidarietà alla Boccassino per le minacce.

In questa giornata di memoria,  ricordiamo il ventunesimo anniversario della strage di Capaci dove, per opera della mafia, vennero uccisi Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Di Cillo ma vogliamo anche ricordare il prete degli “ultimi”: Don Andrea Gallo.

Era un “prete di strada”, come lo definivano e amava lui stesso definirsi. “Prete, comunista, anarchico, no global, irriducibile dei “movimenti”, sempre dalla parte degli “ultimi””.

Era una persona di quelle che parlano in modo netto e che talvolta vanno oltre, tracimano. Le sue posizioni erano decise, schiette, a volte condivisibili, altre volte criticabili, ma sempre dettate da una grande passione, da un grande impegno civile e, soprattutto, da un grande amore per il Vangelo di Gesù.

Figure come la sua ci hanno insegnato a mettere sempre al centro le persone e a rimettere in discussione ogni schema. Speriamo che la sua scomparsa ci faccia riscoprire l’importanza di essere testimoni, a volte anche scomodi.

E in questa lunga giornata, la Rete della Legalità vuole esprimere tutta la vicinanza e la solidarietà al Procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, a cui è stata recapitata una busta chiusa con proiettili e minacce. Ne ha dato notizia il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati. Nel comunicato stampa, Bruti Liberati precisa che “nelle ultime settimane sono pervenute, in un crescendo, numerose lettere anonime con gravi minacce nei confronti del procuratore aggiunto Boccassini e da ultimo, ieri, una lettera contenente due proiettili”. Alcune lettere conterrebbero esplicite minacce di morte. Minacce intensificatesi, in particolare, dopo la requisitoria di Boccassini al processo per il caso Ruby. Proprio nella lettera inviata con i due proiettili c’è un esplicito riferimento al processo.

Palermo: La pioggia non vince, fiaccolate accese per Falcone!

di Roberto Puglisi – Live Sicilia

PALERMO – C’è una pioggia che pare una maledizione. Cade sulle fiaccole accese di Palermo. Qualche ora prima delle fatali 17.58 – nella ricorrenza del ventunesimo anniversario della strage di Capaci – il comitato ventitré maggio ha organizzato la sua e la nostra notte della memoria. Il ricordo è chiamato alle sue pacifiche armi, convocato ai piedi del palazzo di giustizia. E nessuno qui – sotto la pioggia che rassomiglia a un uragano – dimentica la sorella maggiore della memoria: l’inospitale verità. Tanto più invisa quanto più vicina e normale. La odiano coloro che non la cercano, coloro che non vogliono che si trovi, perché hanno qualcosa da nascondere o per un contrapposto terrore: quale fantasma inseguirebbero se le cose si mostrassero così come sono? Il senso della storia si rintraccia, partendo dall’inizio.

Giovanni Falcone era un giudice discreto e spigoloso, che nascondeva la sua calda e ironica umanità sotto una corteccia ruvida. Ai suoi contemporanei non piaceva. Troppo libero, con moglie, senza figli e dunque estraneo alla retorica familistica che ammira gli uomini solo se sono padri. Era una persona col vizio dell’indipendenza, Giovanni Falcone, come viene rammentato sotto i portici che proteggono la gente inumidita di gocce e pensieri. Infatti, risultava scomodo praticamente a tutti. Non lo amavano alcuni dei suoi colleghi che lo braccarono sui giornali e nei verbali del Csm. Non lo amava la sinistra radicale che, in quegli anni, prese uno dei suoi abbagli più formidabili, considerandolo un venduto, un collaterale del potere. Non lo amava la stampa chic. ‘Repubblica’ impaginò un lungo articolo per tacciare il magistrato assassinato a Capaci di manie di protagonismo, dopo la pubblicazione di un suo libro. E non lo amavano le faine della carta stampata. Non lo amava chi scrisse che “con Falcone sarebbe stato necessario tenere a portata di mano il passaporto”. Questo per ricordare davvero, senza ingenuità, senza mediazioni.

La notte della memoria comincia con i bambini della fondazione “Città invisibile”. Gli tocca l’apertura musicale. L’inno di Mameli, il fasto di Elgar (‘Pomp and circumstance’), la lucentezza della ‘grande porta di Kiev’ nei ‘Quadri di un’esposizione’ di Mussorgski-Ravel. E la serata appare liscia come una smisurata porta di pioggia, da attraversare, per andare oltre. Lo scrisse Pietro Grasso, presidente del Senato e allora giudice, in un libro di qualche anno fa. Il metodo Falcone insegnava che era controproducente dare testate a un muro per abbatterlo. Meglio girarci intorno. I piccoli orchestrali suonano e cantano. Lo spettacolo più bello è nelle facce, nei muscoli infantili che si tendono, nella concentrazione ostinata sullo spartito. E’ un messaggio che scava.

Sembrava la tregenda dei bambini. Tempeste. Uragani. Navi della legalità ferme in porto. C’era un pifferaio magico, con la sua grotta maligna, pronto a privarci dell’invasione colorata di ogni 23 maggio? Il rischio si è dissolto. Le navi sono partite. Arriveranno domani. I Mozart in sedicesimo sotto i portici ci danno dentro. Li guardi, serissimi, mentre giocano il gioco della musica. E pensi, forse per un riflesso condizionato, che dovrai amarli per sempre.

Le parole, sì. Appassionate, discutibili, talune irricevibili. Lo sboccato affondo contro il Capo dello Stato, nella megafonata finale piena di testimonianze. I magistrati che parlano di responsabilità. E sappiamo che ci sono diverse visioni: chi li considera sovvertitori, chi eroi. Sicché ogni discorso va a finire nel suo contenitore ideologico, prima ancora che sia pronunciato. Leonardo Agueci, firma di inchieste scottanti: “Negli anni delle stragi accanto ai magistrati c’erano altri che a parole stavano con noi, ma in realtà agivano in tutt’altra direzione. E’ importante che lo Stato possa diventare credibile davanti ai cittadini e davanti agli occhi di chi ha vissuto sulle proprie carni la violenza mafiosa”. Il gup Piergiorgio Morosini: “Ci sono ancora tanti tasselli che mancano. Senza chiarezza su quella stagione, forse la nostra democrazia è incompiuta”. Le parole del signor Agostino, con la sua barba bianca in cerca di forbici che la sollevino dal peso di un figlio morto ammazzato. La moglie del valoroso Beppe Alfano. Parole, appunto. Forti, giuste, stonate, eccessive. Sia come vi pare.

E la fiaccolata nonostante la grandine. E lo striscione per Agnese Borsellino. E la luce delle torce che compare puntualmente, quando Palermo ricorda, per poi rendersi invisibile. Non a tutti, ma a troppi.